Le ricette della signora Toku: recensione

La solitudine è la peggior malattia da cui si può essere affetti. L’intero film di Naomi Kawase (Mogari no mori, Still the water) potrebbe essere rinchiuso in questa breve proposizione, ma non sarebbe giusto, non gli si darebbe lo spazio che merita. Il titolo è Le ricette della signora Toku e, di per sè, ha già il merito di fuorviare il pubblico che si aspetterebbe tutt’altro da ciò a cui realmente assisterà.
Il ruolo della cucina nel film è monocorde e prettamente di contorno, uno stratagemma utilizzato come arma a doppio taglio dai tre credibilissimi protagonisti. Sentaro, Toku e Wakana sono rispettivamente il responsabile di un chiosco di Dorayaki, l’anziana ed affabile signora pronta ad aiutarlo e una ragazzina povera ma con una sensibilità diversa da quella delle sue coetanee.

Le ricette della signora Toku

Masatoshi Nagase (Il mare e l’amore), Kirin Kiki (Father and son) e Kyara Uchida (Kiseki) sono gli attori che hanno dato volto ai cupi sentimenti di cui il film si fa portavoce, pur senza dimenticarsi di far scorgere una speranza.

Le ricette della signora Toku

La pellicola prende forma dal romanzo An di Durian Sukegawa, autrice che aveva già lavorato con la Kawase come attrice in Hanezo No Tsuki. An non è nient’altro che la marmellata di fagioli rossi con la quale si farciscono i Dorayaki, tipici dolci giapponesi che a noi occidentali ricordano vagamente i pancakes, e che trovano nel loro inusuale ripieno il loro punto di forza. Ed è così che la marmellata dalla preparazione lenta e non facile unisce le tre vite raccontate nella pellicola, in un ruolo che svolge egregiamente già nella ricetta tradizionale della cucina giapponese, quello di vero e proprio “collante” tra due elementi simili. Sono tre vite che non conosciamo, che non si incontrano dopo un sentiero tortuoso raccontatoci prima; sono tre vite che attendevano di incontrarsi da tempo, nonostante l’apparente incongruenza reciproca.

La signora Toku non può non ricordare a tutti noi le nostre nonne, pezzi della nostra esistenza che con la loro dolcezza e apprensione ci hanno sempre viziati di nascosto da tutti gli altri che avrebbero potuto arrabbiarsi o, semplicemente, sarebbero morti d’invidia. Tra l’altro Kirin é la nonna di Kyara nella vita reale e questo senso di familiarità arriva fino al nostro cuore a bordo di un’eco costruito con un’umanità strabiliante.

Le ricette della signora Toku gioca con la nostra compassione, con la nostre concezione di “esistenza”, senza avere la presunzione di dare risposte di alcun genere

Il rosa chiaro dei magnifici fiori di ciliegio ovatta il film impedendoci di ferirci urtando contro il loro spigoloso significato simbolico: seppur rispuntando ogni primavera, sono destinati a vita breve prima di adagiarsi al suolo 4-5 giorni dopo il loro sbocciare, giusto il tempo necessario per preparare i rami alla nascita del frutto al quale lasceranno il posto. Emblema della bellezza del dono di una vita breve, sofferta ma con uno scopo ben preciso, sono l’elemento poetico-nostalgico della pellicola, il nodo che ancora quelle vite apparentemente separate a qualcosa di superiore ed al quale non si può non dare un volto o, quantomeno, una forma.

Direttamente dalla categoria “Un certain regard” dell’ultimo festival di Cannes, Le ricette della signora Toku gioca con la nostra compassione, con la nostre concezione di “esistenza” senza avere la presunzione di dare risposte di alcun genere, soltanto ricordandoci che non siamo soli e che, se lo fossimo, sarebbe tutto molto più difficile.

Giudizio Cinematographe

Regia - 3.5
Sceneggiatura - 2.9
Fotografia - 3.6
Recitazione - 3.8
Sonoro - 3.4
Emozione - 3.5

3.5

Voto finale