Leatherface: recensione del film sulle origini di Faccia di Cuoio
La recensione di Leatherface, il film sulle origini di Faccia di Cuoio, prequel del celebre Non aprite quella porta, diretto da Tobe Hooper
Tobe Hooper, uno dei più grandi (e forse incompresi) geni del nostro tempo, portò nei cinema nel 1974 Non aprite quella porta, film che cambiò radicalmente l’approccio di qualsiasi regista postumo al mondo horror innestando un sistema di torture e di shock mai visto prima d’ora. L’approccio alla fisicità e al suo violento squartamento crearono un modus operandi che traumatizzò il pubblico ma s’innestò sotto il tessuto connettivo del genere horror. E di carne e della sua violenta scomposizione tratta Leatherface, il film diretto da Alexandre Bustillo e Julien Maury, giovani registi già visti in azione in pellicole dal sapore alquanto interessante come Inside e Livid.
Leatherface: il film diretto da Alexandre Bustillo e Julien Maury, un omaggio a Tobe Hooper
Dopo la grande produzione filmica che ha interessato il personaggio di Ed Gein, oltre a tutti i film che ha ispirato come Psycho di Hitchcock fino a Il Silenzio degli Innocenti di Demme, ecco arrivare un prequel per il capolavoro di Tobe Hooper Non aprite quella porta. Questa volta fonte dell’interesse dei registi e della storia sono le origini di Faccia di Cuio.
Vogliamo sottolineare un piccola nota a favore della distribuzione, ovvero l’esclusiva mondiale dell’uscita della pellicola in Italia (14 settembre): Un vero colpo, se consideriamo che il film non appare affatto male, anzi, in un mercato ricco di blockbuster, questo Leatherface s’intarsierà in maniera dura e quasi rock ‘n roll nel panorama horror attuale.
Siamo in Texas, terra arida e carica di colori accesi e persone alquanto “sui generis”, la famiglia Sawyer è conosciuta per la sua stranezza e la violenza con la quale “accoglie” chi non rispetta le “regole” che impongono a chi invade il loro territorio. In questa trappola mortale cade la figlia dello sceriffo Hartman che viene brutalmente assassinata; accecato dall’ira il padre requisisce alla fattoria il figlio, possibile artefice o partecipe dell’efferato delitto, Ed Sawyer. Dieci anni dopo, in seguito a una violenta insurrezione causata dalla visita della madre di Ed, Verna Sawyer (interpretata dalla grande Lily Taylor), il ragazzo riesce a fuggire insieme a un gruppo di squilibrati: due malati mentali, Ike e Clarice (protagonisti tra l’altro di threesome con un cadavere che farà drizzare i peli agli amanti delle scene forti), un ritardato molto forte fisicamente (Bud) e l’ostaggio della clinica, la giovane infermiera Elizabeth.
Durante la loro fuga, con lo sceriffo Hartman alle calcagna, il gruppo commetterà una serie di efferati delitti, brutali dove la macchina da presa si concentra molto, soprattutto sulla scomposizione materiale del tessuto organico, tanto cara al compianto Hooper. Ma chi è il vero villain del film? Possiamo dirvi nessuno, tutti sono colpevoli di qualcosa e l’unico rimedio a questo è intonare una diabolica osanna a base di carne umana.
Una regia puntigliosa, a tratti petulante, quella della coppia francese al timone del film, che dimostra non solo di avere una certa confidenza con il genere, ma esalta all’ennesima potenza la bellezza della fotografia, l’aridità e i colori forti del sole che s’infrange sul terreno sabbioso del Texas, dove solo il sangue può traboccare con così tanta veemenza. La fotografia è nitida, dal tono vintage, e la macchina da presa è sempre puntata sugli sguardi dei protagonisti, quasi a voler sottolineare il linguaggio degli occhi, del viso, della loro espressività.
Leatherface non è un film per tutti, il suo più grande difetto è proprio questo (o il suo più grande pregio?), ma tra gli appassionati del genere non può che essere un grande omaggio a Tobe Hooper, un valzer mortale ballato costantemente sulle punte del gore.