Leonora Addio: recensione del film di Paolo Taviani
Leonora Addio, il primo film di Paolo Taviani dopo la scomparsa del fratello Vittorio. Premiato alla Berlinale 2022, ecco perché è un film speciale.
Leonora Addio, vincitore del Fipresci alla Berlinale 2022 e in sala dal 17 febbraio 2022, è un film dei fratelli Taviani, ma senza Vittorio. Possiamo vederla così, certi di non fare retorica o di aggrapparci a lirismi di facile fascino. È Paolo a dirlo, che durante la presentazione del suo primo film in solitaria afferma che il fratello – venuto a mancare il 25 aprile 2018 – è una presenza tangibile. “Non c’è il suo nome nel film”, racconta, “ma solo perché mi fece promettere di non apporre mai la sua firma a riprese di cui non avesse potuto avere il controllo”. Questa dinamica personale, intima sino un eccesso che ci pone il dubbio di aver spalancato porte su cui a volte è prezioso sostare con sguardo timido e rispettoso, scuote Leonora Addio senza spezzarlo mai.
È infatti un film sull’assenza presentificata, sul presente che scompare, sul debrayage – volendo usare un termine semiotico che suona strano ma significa dire senza esserci – e così anche sulla morte ma per chi resta, e abbraccia le ceneri di un ricordo. Un film sugli inizi nella fine. Quelle ceneri, in Leonora Addio, sono di Pirandello; assieme protagonista e macguffin per un film che non si sceglie mai e saltella tra un utilizzo documentario della scrittura su schermo, dell’immagine d’archivio – false, vere, dubbie – per gli esterni e un bianco e nero che serve a nascondere i confini della stanza in cui il drammaturgo muore.
“Fatevelo piacere, vi prego”. Paolo Taviani osserva la sala piena (pienissima!) con lo charme sornione di un signore anziano che conquista la platea con una modestia dolce ma consapevole. A posare le parole giuste è Nani Moretti, che da padrone di casa alla proiezione al Nuovo Cinema Sacher di Roma si espone per una verità violenta, che lo spettatore subirà per l’ora e mezza di film che segue: “Libero e rigoroso, questo è Leonora Addio”. Ancora una volta il regista di Caro Diario ci ruba parole a cui vorremmo togliere le virgolette; per farle nostre. Ma sono di tutti, perché centrano Leonora Addio con rigore e libertà. Un film disordinato ma severo, esatto ma personale. Una storia di e su Pirandello, di e su Paolo e Vittorio, di e sull‘Italia (e noi tutti).
Leonora Addio, da Pirandello a Taviani
“Non mi sono mai sentito tanto solo e tanto triste”. Le parole di un Pirandello al crepuscolo dell’esistenza sfogliano i primi attimi di Leonora Addio. Paolo Taviani scenografa da teatrante ma riprende da cineasta: la prospettiva è con il letto di morte, e la stanza che da quell’istantanea di fine si sviluppa in un mare bianco che coglie a sé mobili, tavolini e quei figli “piccoli e già grandi”.
Siamo ancora ai titoli di testa, in un controsenso di certa poesia che si chiude all’apertura. Inizia nella morte. È qui che appare la dedica attesa: “A mio fratello Vittorio”. Sono tempi lunghi quelli che Paolo si concede per iniziare. Ciò, in un film di soli 90 minuti. Anche questa è libertà e rigore: la storia è già iniziata e al contempo è tutto preambolo e annuncio. Pirandello deve morire per principiare l’odissea delle sue ceneri. Da Roma, dove il ventennio fascista l’aveva voluta, l’urna a conflitto finito può tornare ad Agrigento.
Anche qui è ancora tutto preambolo: Leonora Addio è una novella pirandelliana che il film mette in scena avviandosi alla fine. Quando il drammaturgo riposa nella terra desiderata dopo un viaggio convulso (quello della vita vissuta, quello della vita in urna). Solo in quel momento il colore subentra nell’immagine, placido e prudente intinge la scena rapprendendosi allo schermo con una nobile dignità che non discute o rivaluta il film che si sta abbandonando per un’altra storia. Leonora Addio trova dunque nel mare siciliano uno iato, ripreso dall’alto per sopprimerne ogni orizzonte. Al colore, si somma un cambio di tempi, luoghi, realtà. La novella ci porta in America, dove un giovane ammazza senza opportuna ragione la ragazzina che per ore aveva osservato litigare con un’amica. Leonora Addio è così già un altro film, dopo averne mostrati una pluralità in un caos controllato e virtuoso, mai stucchevole.
Quando l’urna non può viaggiare via aerea per le superstizioni di passeggeri e piloti, l’odissea bianconeragrigia prosegue su binari. Leonora Addio non ha paura di sfilacciarsi e difatti si disunisce molto presto. I volti incontrati intercettano l’Italia del dopoguerra, tra soldati liberati e ora sposi con bionde d’Alsazia – di una coppia osserviamo l’attimo che anticipa l’amplesso cadenzato dalle luci pulsanti del vagone – e un insieme comico di paradossale umanità. Quella del neorealismo, o in senso ampio di un cinema italiano diverso, altrettanto libero e rigoroso. Di alcune sequenze di Paisà, Estate Violenta e altri testimoni di quell’arte, Taviani ne fa man bassa. Incastonati tra gli esterni del treno o il colore ritrovato della breve novella, Leonora Addio ritaglia per sé ciò che serve a sostanziare una dedica importante. In questo Blob di montaggio, Pirandello è il poeta di cui si può dire tutto per parlare di ogni cosa.
Ma soprattutto, Leonora Addio è quella fine che inizia. Quel preambolo, l’insieme di minuti fermi ma irrefrenabili dei titoli di testa: l’annuncio di quell’altra Italia sul nascere – sotto il segno americano (terra della novella in uno scambio tra vasi comunicanti di lingue e luoghi), sulle forme (e i formati!) dell’italianità artistica e un boom moderno a venire seppure ancora stretto alle comiche di superstizioni e vissuti umani. L’Italia privata del suo Pirandello, pirandelliana più che mai.
Grazie Paolo, ci è piaciuto.