L’erede: recensione del film di Xavier Legrand

L'erede, regia di Xavier Legrand, è un thriller incalzante, una fiaba nera dai risvolti tragici, un film incredibilmente realistico e molto attuale. Dal 20 febbraio 2025 in sala per Teodora Film.

Il fortunato debutto non ha ammorbidito l’ambizione di Xavier Legrand, semmai è vero il contrario, e la complessa tessitura del suo secondo film da regista, L’erede, in sala in Italia il 20 febbraio 2025 per Teodora Film, sta a dimostrarcelo. Thriller, favola nera, studio di carattere, riflessione su patriarcato, violenza e controllo di genere, arriva a otto anni dall’esordio dietro la macchina da presa per l’attore-autore francese, che si chiamava L’affido – Una storia di violenza e aveva vinto due premi alla Mostra del Cinema di Venezia del 2017 (Leone d’argento – Premio speciale per la regia e Leone per il futuro). Era la terribile, dolorosa e incredibilmente realistica esplorazione di un nucleo familiare sconvolto dalla violenza domestica e dalla sopraffazione patriarcale – gli ultimi quindici minuti sono tra le cose più devastanti che vi capiterà di incontrare nel cinema recente – e in un certo senso L’erede ne porta avanti il discorso, in maniera però indiretta, laterale, più sfumata nel rapporto tra genere (cinematografico) e realtà. Sarà tutto più chiaro continuando a parlarne. Per adesso, il cast. Sono due i nomi da fare. Marc-André Grondin e Yves Jacques.

L’erede: il doloroso ritorno del figlio nella casa paterna

L'Erede; cinematographe.it

Non è un soggetto originale, L’erede, e anche questo conta. Conta, perché Xavier Legrand, che ha sceneggiato insieme a Dominick Parenteau-Lebeuf adattando il romanzo di Alexandre Postel L’Ascendant, aveva in mente questo, per la sua seconda regia: un prezioso e instabileequilibrio tra drammatizzazione e realtà. Il film è, contemporaneamente, una fantasia thriller e una cronaca dall’inusuale crudezza, psicologicamente accurata e socialmente consapevole. Comincia tutto a Parigi. Ellias Barnés (Marc-André Grondin) è il più quotato giovane stilista della città. Ha appena preso il posto di un anziano maestro in qualità di direttore artistico di una prestigiosa casa di moda, e tutto va a gonfie vele. Almeno, così sembra.

Ellias, che prima si chiamava Sebastian ma a un certo punto ha cambiato nome per scrollarsi di dosso il retaggio familiare, soprattutto paterno, ha qualcosa che non va. Un grosso senso di oppressione al petto, che scambia per un attacco di cuore ma forse è solo panico. Non riesce a tranquillizzarsi perché il padre, che vive in Canada e con cui non ha rapporti da tempo, ha avuto un ictus qualche anno prima, e quindi è convinto che i guai del genitore siano un campanello d’allarme anche per lui. Teme che il dolore al petto annunci un male ereditario e, in un certo senso, non quello che si aspetta, ha ragione. Capita che il padre muoia all’improvviso, per un attacco cardiaco, e che tocchi a Ellias andare a Montréal per occuparsi delle proprietà e organizzare i funerali. Lì incontra Dominique (Yves Jacques), il vicino di casa e il migliore amico del padre, che si offre di aiutarlo.

Ellias vorrebbe andarsene in fretta ma non ha fatto i conti con la casa paterna. Dentro c’è nascosta la risposta a una terribile domanda. È a questo punto che L’erede comincia davvero. Iniettato di un senso di tragica ineluttabilità, modellato su convenzioni narrative che (parola di regista) intrecciano thriller, neo-noir e favola gotica, il film prosegue il discorso del film del 2017 raccontando la virilità tossica e l’abuso patriarcale. Lo fa seguendo due strade, intelligenti e abbastanza spiazzanti. Primo, non si concentra sulla persona che subisce l’abuso, né sul carnefice, puntando piuttosto lo sguardo su chi sta intorno, sui maschi che partecipano alla colpa e all’abuso, anche quando lo ignorano, mettendoli di fronte al pressante interrogativo: cosa fare, ora? Secondo, cerca di prendere il meglio da entrambi i versanti, l’estremo realismo e l’immaginazione, per modellare una storia che sappia parlare con onestà al nostro presente mantenendo un sentimento e un respiro universali.

Suspense, patriarcato, thriller e ineluttabilità tragica. Un film dall’insondabile complessità

L'Erede; cinematographe.it

Il cinema di Xavier Legrand – alla boa del secondo film è possibile azzardare qualche considerazione su contorni e essenza della sua cifra autoriale – è un cinema… a metà strada. Valeva per il film del 2017, vale a maggior ragione oggi di fronte alll’opacità deliberata, insistita, messa in scena con L’erede. L’opacità avvolge il film a ogni livello. Xavier Legrand spoglia il genere (il thriller) di ogni pretesa e vacua spettacolarità immergendolo in un bagno di brutale realismo, carica sociale e introspezione. Allo stesso tempo, carica la realtà di emozione e di suspense, la imbriglia all’interno di convenzioni puramente cinematografiche, per renderla più accessibile al pubblico e esasperarne l’intensità. L’idea di Xavier Legrand con L’erede è di avvicinare il dramma alla realtà e la realtà al dramma.

La “sorpresa” nella casa del padre, l’eredità trasmessa di padre in figlio, è un modo sbagliato e criminale di gestire le relazioni tra uomo e donna. L’interrogativo è: si può sfuggire al destino? Può Ellias essere un figlio migliore del padre che gli è toccato in sorte? In fondo, nel suo modo di essere stilista c’è il germe di una tossicità non del tutto compresa; il defilé che inaugura il film, i corpi femminili che sfilano davanti alla macchina da presa, indirettamente parlano di possesso, del soffocante controllo che l’uomo esercita sul corpo e l’anima della donna. C’è dell’altro. L’erede è un thriller, certo, ma anche una tragedia. Da Amleto a Edipo, il peso del compito di Ellias, la lotta contro il patriarcato, è una posta in gioco così enorme – cambiare il suo destino e, indirettamente quello di tutti gli uomini – che forse è impossibile sovrastarla, nonostante i tentativi. Ma neanche l’ineluttabilità tragica, o un destino quasi insormontabile, ci consegnano l’ultimo, definitivo piano di lettura del film. Bisogna andare avanti.

È proprio nella confusa risposta del figlio alla scoperta dei segreti del padre che emerge l’altro tema del film: l’impossibilità di leggersi dentro, e comunicare con gli altri, con la dovuta chiarezza. Ogni dialogo è incompleto e sminuzzato, la conversazione zoppicante, mentre gli sguardi alludono a verità tremende e mai del tutto analizzate. L’erede è un film sulla trasmissibilità del male e sull’impossibilità di capire fino in fondo la realtà e la nostra verità interiore. Un cinema curiosamente contraddittorio, forse troppo diretto nel far intuire il gioco teorico che sta alla base del film – fatta eccezione per il devastante, meravigliosamente opaco finale – e insieme troppo innamorato della sua ambiguità, al punto di allontanare lo spettatore dai personaggi. Ma ha anche un’idea, il coraggio di metterla in scena, ha la grazia fragile e nervosa di Yves Jacques, ha la fisicità malinconica e un’ombra di tristezza nello sguardo di Marc-André Grondin. Nel passaggio dalla teoria alla pratica, il film non si disperde.

L’erede: valutazione e conclusione

Elegantissimo nella forma, impeccabile nella costruzione dell’inquadratura – freddi e potenti, i toni della bella fotografia di Nathalie DurandL’erede è il potente e ambizioso tentativo di intrecciare genere e realismo. Xavier Legrand racconta il patriarcato dal punto di vista di chi sta ai margini e indirettamente ne beneficia, chiedendosi: è possibile liberarsi del destino? Il film è potente, autoriale ma spettacolare, ambizioso. Non tutto è calibrato alla perfezione ma, tanto l’audacia della proposta, quanto la combinazione di provocazione e spettacolo, ci invitano a pensare che il film appartenga a quella zona lì, quella in cui le domande contano più delle risposte. E le risposte, se ci sono, vanno lasciate allo spettatore. L’erede non ha fretta di rispondere, per sua e nostra fortuna.

Regia - 3.5
Sceneggiatura - 3
Fotografia - 3.5
Recitazione - 3.5
Sonoro - 3.5
Emozione - 3

3.3