L’età d’oro: recensione
In L’età d’oro, Laura Morante (Assolo, Ricordati di me) interpreta Arabella, pseudonimo utilizzato per portare sul grande schermo uno stralcio di vita della regista Annabella Miscugli, donna dal grande fascino molto attiva negli anni ’70.
Sullo sfondo di un’arena cinematografica (di nuovo in funzione e pronta per proiettare L’age d’or) la cui ristrutturazione fu fortemente voluta da lei e dai suoi collaboratori in quegli anni di ferventi cambiamenti, si sviluppa una vicenda che si alterna tra presente e passato, demoni e speranze mal riposte. In occasione della riapertura del cineclub il figlio di Arabella, Sid (Dil Gabriele Dell’Aiera – Sanguepazzo, Le stelle inquiete) si vede costretto a fare ritorno a Monopoli dopo anni di voluta assenza e il conseguimento di una laurea in architettura nella lontana Torino. La passione della madre l’ha catapultato fin da piccolo in un mondo colmo di falsi affetti e poche vere attenzioni; questo l’ha portato a sviluppare un profondo odio verso la madre e le decine di pellicole super 8 sempre pronte a tenergli fissi nella mente momenti della sua vita che farebbe volentieri a meno di ricordare.
L’età d’oro: meta-cinema e biografia si incontrano senza destare interessi.
Gigio Alberti (Mediterraneo, Il capitale umano), Pietro De Silva (La vita è bella, Non ti muovere), Giulio Scarpati (Un medico in famiglia, Mario, Maria e Mario) e Giselda Volodi (Grand Budapest Hotel, Le conseguenze dell’amore) formano lo staff di (quasi) affezionati collaboratori di Arabella; tutti affascinati, in un modo o nell’altro, dalla personalità di una donna alquanto enigmatica. Eugenia Costantini (Meraviglioso Boccaccio, Diciotto anni dopo – nonché figlia della Morante) e Stefano Fresi (Forever Young, Romanzo Criminale) formano la nuova leva di appassionati sognatori/collaboratori pronti a tutto per tenere il vita l’arena e ciò che simboleggia.
La prima persona che ho conosciuto a roma è stata Annabella Miscuglio. Lei e suo figlio mi hanno ospitato a casa loro e la loro casa è stata per qualche anno la mia base romana. Erano anni di ricerca e il via vai di artisti internazionali prendeva atto davanti agli occhi del figlio che, forse, avrebbe voluto una mamma tutta per sé. Anch’io come altri ad un certo punto mi allontanai da lei, per fare altre esperienze e per trovare la mia strada. Dopo tanti anni, ecco una sua telefonata: – Vieni, sto morendo. Perché mi ha chiesto di venire a vedere la sua morte? me lo sono chiesto tante volte.
Poche parole che testimoniano il coinvolgimento emotivo della regista Emanuela Piovano (Le rose blu, Le stelle inquiete) alla storia da lei narrata.
Sono da cercare tra le righe di questa dichiarazione le tante falle che squarciano la celluloide di questa pellicola? Si tratta di una sorta di meta-cinema scritto male ed interpretato peggio. La narrazione non è piacevolmente scorrevole, complici anche dialoghi mal-impostati e atti simbolici compiuti con un po’ troppa leggerezza e senza convinzione. La camera è (quasi) perennemente fissa, con stacchi di montaggio troppo distanti tra loro per poter destare curiosità. Buona, però, la fotografia: la scelta cromatica e la composizione dell’inquadratura di Marc Van Put sono il compagno di banco pronto a richiamare la tua attenzione un attimo prima di crollare nel sonno più profondo davanti a tutta la classe.
Alla Morante che dice:
È un film che mi è sembrato da subito molto originale e si sentiva che l’argomento non era pretestuoso! Anche quando poi l’ho visto sul grande schermo si percepiva che, oltre ad un film riuscito, fosse simpatico.
Non possiamo far altro che confessare di essere d’accordo con lei soltanto in parte. Buona riuscita e simpatia: non pervenute!