Lettere da Berlino: recensione
Nella Berlino del 1940, la neonata seconda guerra mondiale ancora non si era resa nota per il suo potere ultradistruttivo. Le “uniche” cose di cui aver paura erano le normali operazioni belliche, nelle quali era coinvolto anche il figlio dei coniugi Otto e Anna Quangel. È lui il protagonista della prima tragica sequenza di Lettere da Berlino; lui insieme al suo fucile, alla sua paura, lui che muore da eroe proprio mentre la Sua Germania sconfigge i nemici francesi.
Lettere da Berlino lotta contro l’abominio della guerra con un’ordinarietà senza precedenti.
La famiglia Quangel non sarà più la stessa da quella mattina in cui sentirà bussare alla propria porta e vedrà sull’uscio la fidata postina Kluge, costretta a vestire i panni di una funesta ambasciatrice. Tutta l’azione dei 95 minuti successivi scaturisce da queste due semplici ed intense scene di un film tratto da una storia vera, nonché adattamento filmico dello stesso regista Vincent Pérez (Pelle d’angelo, ha anche interpretato il Barone di Sigognac ne Il viaggio di Capitan Fracassa del compianto Ettore Scola) del best seller di Hans Fallada Ognuno muore solo, datato 1947.
Lettere da Berlino (Alone in Berlin il suo titolo originale) è una storia di rabbia, sconforto, rassegnazione: tutti sentimenti che nascono dagli animi di Otto Quanguel e di sua moglie Anna. I due berlinesi che non si sono mai iscritti al partito nazista ma che hanno saputo sempre conviverci senza farsi notare, hanno sullo schermo il volto di Brendan Gleeson (Harry Potter e il calice di fuoco, Suffragette) ed Emma Thompson (Saving Mr. Banks, Che resta del giorno). Ottimi interpreti di normalissimi esponenti della classe operaia di una società marcia e corrotta, i Quangel diventano protagonisti attivi della storia quando Otto, d’impulso, scrive una cartolina in cui scredita il Führer ed il suo Reich, che ha ucciso suo figlio per combattere una guerra che non gli appartiene e che ucciderà anche i figli degli altri.
Lo sguardo cinico e caparbio di Daniel Brühl (Bastardi senza gloria, Rush) è la quintessenza di un personaggio che sembra marginale ma in cui è ben leggibile un particolare affetto in fase di scrittura
È l’inizio di un moto di rivolta molto particolare, nonché il primo movimento anti-nazista che nasce all’interno delle sue mura. Lui e sua moglie ne saranno per sempre gli unici due interpreti, accomunati da un dolore che nessuna tortura delle SS può eguagliare.
Così, dopo due anni vissuti tra il brivido di poter cambiare il modo di vedere della gente ed il terrore di essere scoperti, le cartoline sono diventate quasi 300, di cui la grande maggioranza sono, ovviamente, consegnate alla polizia. Un “cattivo” anomalo quello rappresentato dall’ispettore Escherich della Gestapo: fin da subito coinvolto nell’operazione di caccia al pericoloso uomo che sta silenziosamente combattendo contro il regime, è immerso in un mondo di cattivi ben più pericolosi dei quali non si può non aver paura, o qualcosa di simile mischiato ad un forte senso di ribrezzo. Lo sguardo cinico e caparbio di Daniel Brühl (Bastardi senza gloria, Rush) è la quintessenza di un personaggio che sembra marginale ma in cui è ben leggibile un particolare affetto in fase di scrittura ed al quale potrete avvicinarvi dal 13 ottobre (data di uscita al cinema).
Ed è proprio la sceneggiatura uno dei punti di forza di Lettere da Berlino, un film perfettamente ordinario (nella fotografia, come nei dialoghi chiari ed essenziali) che porta un periodo storico davanti ai nostri occhi nella maniera più anonima e meno spettacolare che ci sia, proprio come quelle cartoline che nacquero dal dolore, passarono per la rabbia per morire affogate nel sangue di Otto e Anna, colpevoli di amare un figlio morto da eroe per persone che di eroico non hanno mai avuto nulla.