Linee Parallele: recensione del film Netflix di Wanuri Kahiu
Sliding doors aggiornato alle questioni femminili delle nuove generazioni, Linee Parallele con protagonista Lili Reinhart presenta due versioni di una giovane donna alle prese con un momento che potrebbe (oppure no) sconvolgere tutti i suoi piani. Dal 17 agosto su Netflix
Comunque vadano le cose “stiamo andando alla grande”. Qualsiasi sia la strada intrapresa e quella forzatamente abbandonata, l’accogliente finale di Linee parallele, il nuovo film Netflix con Lili Reinhart (Riverdale, I nostri cuori chimici) disponibile in piattaforma dal 17 agosto, ci ricorda che la vita, per quanto solo all’apparenza pianificabile, ha in sé degli attimi, delle svolte che sfuggono alla nostra volontà. Non rimane allora che accoglierle.
A Natalie, brillante studentessa di grafica ad un passo dalla laurea, quel ribaltamento che potrebbe farle sfuggire il controllo di mano è racchiuso in un bagno di un edificio universitario, seduta sul wc in attesa del risultato di un test di gravidanza. Decisa infatti a trasferirsi con l’amica Cara (Aisha Dee) a Los Angeles e presa dall’euforia di poter finalmente concretizzare i propri sogni, il futuro dell’aspirante disegnatrice è appesa a un filo, o meglio al numero di lineette che vedrà comparire nel giro di due minuti: se davvero incinta dovrà (ri)trasferirsi dai genitori, mettere in stand by i progetti, allontanarsi dalla mondanità che tanto agognava e trascinarsi in un tira e molla romantico col padre della piccola (Danny Ramirez). In alternativa, si spalancherà, proprio davanti ai suoi occhi, l’illusione di una California frivola e spietata, alla continua ricerca di una propria identità personale e non di meno lavorativa, fatta di curricula inviati il sabato sera, di colloqui, tante delusioni e altrettante soddisfazioni.
Gravidanza, carriera e ricerca della propria identità: il ‘cosa sarebbe successo se?’ nella versione contemporanea con Lili Reinhart
Semplice e alla portata di una visione distensiva come vuole il mese d’uscita, la sceneggiatura di Linee parallele curata dalla scrittrice April Prosser si sviluppa senza troppe pretese in uno sliding doors aggiornato alle nuove generazioni di future donne e troppo presto (?) mamme, mostrandoci in continua alternanza ravvicinata la vita di Natalie con e senza gravidanza. Cogliendo a tratti la genuinità di una questione più complessa di quel che appare in superficie, ossia se è sempre così certo che avere un figlio a vent’anni mette a rischio l’affermazione personale e professionale, il film non indaga o risponde nettamente all’argomento prediligendo questa o quella alternativa, ma preferisce piuttosto fare della componente aleatoria lo slancio necessario a raccontare una storia simbolica, piacevolmente scivolata nella comfort-zone dell’intrattenimento e dell’auto accettazione qualunque sia la traiettoria preferita dalla spettatrice.
Linee Parallele non fornisce alcuna risposta, tranne quella che qualsiasi sia la nostra attuale versione è comunque la migliore possibile
Suggerendoci anzi che le due strade prima o poi s’incontrano in un binario che inesorabilmente le ricompine ricongiungendole oltre la nostra intenzione, Linee parallele non fa altro che immaginare due futuri-presenti differenti ma mai opposti, moderni ma ancorati ai valori di una volta, nei quali muovere una protagonista, interpretata da una Lili Reinhart sorprendentemente autentica in ogni versione, alle prese con le altalene emotive del post parto e le prime soddisfazioni della carriera, e all’opposto, le priorità assolute di una maternità gratificante e le frustrazioni di un mondo lavorativo sempre poco appagante.
Lontana ben ventitré anni da quel primo Sliding Doors rappresentato dal cult con Gwyneth Paltrow e decisamente più vicino alla serie tv Ordinary Joe che di possibili versioni di sé ne metteva in scena addirittura tre, il ‘what if’ stavolta prediletto nel film di Wanuri Kahiu continua ad essere per il cinema un intreccio interessante, il rispecchiarsi di una doppia immagine di una vita chiamata a scegliere, a ponderare, e allo stesso tempo a condizionare un’intera esistenza in una manciata di secondi, sollevando così nello spettatore la medesima domanda a cui non vi è risposta certa: quanto della vita si può progettare e quanto invece è la vita che progetta per noi?