Venezia 75 – Lissa ammetsajjel (Still Recordings): recensione
Lo stile da reportage di Lissa ammetsajjel (Still Recordings) consente di essere inglobati nella guerra siriana, con ricadute emotive non indifferenti.
Non prendi in mano una pistola, a meno che tu non sia costretto a farlo.
Rovine, macerie, corpi sparsi sui cigli delle strade, esplosioni improvvise e fragori assordanti. È questa Douma, città siriana che proprio quest’anno ha iniziato a essere sulla bocca del mondo, per essere diventata la base di un’organizzazione islamista che ha partecipato alla guerra civile siriana, insorgendo contro il regime di Bashar al-Assad. Lissa ammetsajjel (Still Recordings), diretto dagli studenti Saaed Al Batal e Ghiath Ayoub, è un progetto che intende offrire una documentazione storica estremamente importante, girato proprio durante i giorni della guerra in Siria.
I due studenti dietro la macchina da presa hanno deciso di porsi dalla parte dei rivoluzionari ribelli, trasferendosi da Damasco a Douma. Il documentario è frutto di un lavoro durato ben quattro anni, per un totale di quasi 500 ore di materiale, che entra proprio nella tormentata routine degli abitanti affamati e sotto assedio, i quali continuano a vagare per le strade della città disastrata come corpi senza anima.
Lissa ammetsajjel (Still Recordings) la quotidianità emerge prepotentemente tra le rovine di guerra
La presenza di Saeed Al Batal e Ghiath Ayoub è costantemente percepibile, non solo per i movimenti della macchina da presa, ma anche per il fatto che spesso i due registi intervengono – squarciando talvolta l’assordante silenzio conseguente ai bombardamenti – ponendo delle domande dirette ai cittadini sulla grave situazione in atto ed evidenziando una strana quotidianità all’interno della drammaticità.
“Anche se il Bashar e il regime continueranno a distruggere, la vita e lo sport devono continuare” frase particolarmente incisiva pronunciata da uno degli intervistati, mentre indisturbato decide di fare una corsa d’allenamento mattutino tra lo scoppio delle bombe. Così come colpisce uno dei rivoluzionari che, intento a impugnare la propria arma trova del tempo anche per telefonare alla madre, in un dialogo quasi inusuale all’interno del contesto in cui siamo immersi. Da questi piccoli episodi emerge che, nonostante tutto, la vita prosegue e che molti non si lasciano abbattere dagli spietati moti di violenza, continuando con le proprie abitudini giornaliere.
Gli spettatori vengono inglobati in un mondo letteralmente in frantumi, in cui la visione delle immagini si unisce a un coinvolgimento emotivo dato dal modo in cui viene impiegata la macchina da presa, che crea inquadrature a volte buie e sfocate e soprattutto traballanti, con insistenti zoom su particolari dettagli – per esempio alcuni dettagli sugli innumerevoli corpi dei cadaveri sparsi per Douma.
Lissa ammetsajjel (Still Recordings) fonde gli orrori della guerra con l’amore per la Settima Arte
La particolarità in un docufilm del genere è l’amore per il cinema, che traspare quasi da ogni sequenza. Non a caso, all’inizio del documentario, assistiamo a una lezione di cinema, tra i detriti di Douma, in cui si tenta di insegnare le nozioni di base del fare cinema, attuando dei paragoni con celebri film americani. Più volte, il cinema, inteso come linguaggio tecnico, si fa strada tra le vie deserte della città siriana, anche tramite le conversazioni dei due registi, alla ricerca delle inquadrature perfette.
Still Recording significa “registrare ancora”, non fermarsi, continuando a documentare, adesso più che mai, la realtà sporca e cruda della Siria, in un quasi ininterrotto reportage, in cui i due registi mettono a nudo non solo la condizione del loro paese, ma anche loro stessi e altre migliaia di anime la cui vita è sospesa.