Living – recensione del remake di Vivere diretto da Oliver Hermanus
Living è un film dall’incredibile portata drammaturgica, ad alto tasso di emozionalità.
Presentato in anteprima mondiale nel gennaio del 2022 al Sundance Film Festival e subito dopo fuori concorso alla 79ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, suscitando un ottimo consenso critico, Living, diretto da Oliver Hermanus e scritto dal premio Nobel per la letteratura Kazuo Ishiguro, è il remake di Vivere (1952), uno tra i molti capolavori della cinematografia di Akira Kurosawa, leggendario regista, sceneggiatore, montatore, produttore e scrittore giapponese, considerato tra i più importanti e influenti cineasti della storia del cinema.
Distribuito da Lucky Red, Living è in uscita nelle sale italiane a Natale.
Living: quando la malattia cambia tutto
Mr. Williams (Bill Nighy) è un anziano burocrate che lavora da tutta la vita nell’ufficio londinese delle Opere Pubbliche, rispettando una condotta morale assolutamente rigida, impeccabile e perciò temuta da tutti gli altri colleghi. Mr. Williams non parla, piuttosto suggerisce silenziosamente, dando l’idea di non voler sprecare niente più di quell’energia necessaria a produrre un sussurro. Tutto cambia il giorno in cui si ritrova a doversi confrontare con l’esito infausto di alcuni esami clinici che non sembrano dargli scampo, confermando una diagnosi di cancro già identificata diversi anni prima e in via di peggioramento. Improvvisamente consapevole di aver ancora poco tempo da vivere, Mr. Williams apre sé stesso al mondo, alle persone, perciò ai sentimenti.
Nello stesso periodo, Mr. Wakeling (Alex Sharp), un giovane distinto e generoso, viene assunto nell’ufficio di Mr. Williams ritrovandosi dinanzi ad uno stravolgimento emotivo causato dalla conoscenza della bella e giovane collega Margaret (Aimee Lou Wood), colei che riuscirà a smuovere il cuore e le emozioni apparentemente assenti di Mr. Williams nel corso di una battaglia sociale che ha come obiettivo la riqualificazione di un’area ormai abbandonata e colma di sporcizia, destinata a diventare un piccolo parco giochi per bambini, chiesto a gran voce da tre instancabili donne del quartiere.
Uno dei migliori film drammatici britannici degli ultimi anni
Mettendo da parte per qualche attimo la questione remake, Living di Oliver Hermanus rappresenta il miglior modello di cinema drammatico britannico visto negli ultimi anni. Ciò non soltanto per il complesso e senz’altro grandioso lavoro sugli – e degli – interpreti del film, ma anche e soprattutto per come riesce a gestire i toni e le tematiche certamente impegnate della sua struttura narrativa, senza risultare mai pesante, ridondante, o ancor peggio, prolisso.
Basti considerare la caratterizzazione del protagonista del film, così definitivamente austero, gelido, incorruttibile, invisibile di fronte all’emotività e per certi versi, almeno inizialmente, anche alla vitalità di ciò che gli sta attorno. Un personaggio con il quale risulterebbe impossibile entrare in contatto, non compiendo alcun gesto o non proferendo alcuna battuta di dialogo capace di smuovere lo spettatore fino al raggiungimento di quel minimo livello di empatia capace di creare rapporto, condivisione e sentimento.
Tutto questo sarebbe certamente accaduto, tuttavia proprio per la presenza in sceneggiatura di un autore come Kazuo Ishiguro (Non Lasciarmi), anche una figura principale come Mr. Williams si rivela con il procedere del film di una complessità insperata e sorprendente, tale da celare un background emotivo ed una frammentazione identitaria profonda e destabilizzante. Un personaggio che muta radicalmente, divenendo qualcosa di assolutamente differente rispetto alla sua condizione di partenza, riuscendo a creare un rapporto sempre più diretto ed emotivamente interessato con lo spettatore, che attendendosi una direzione chiara e ormai stabilita, si ritrova a confrontarsi con un’altra molto più giustamente vaga, sbarazzina, mutevole e vitale.
Bill Nighy destabilizza lo spettatore
Come d’attese, non soltanto si deve la riuscita di questo complesso lavoro di adattamento e caratterizzazione al peso notevole della scrittura cinematografica di Kazuo Ishiguro, ma anche e soprattutto al lavoro interpretativo di Bill Nighy che se negli anni ha abituato il suo pubblico ad una zona di comfort legata alla commedia leggera e all’umorismo sfrontato e molto spesso disincantato e scorretto, funzionale ad un uso per certi versi unico e anomalo della fisicità – i movimenti di Nighy si avvicinano in più di un caso al ballo e al modello interpretativo del muto, fatto di gesti ed espressioni fortemente caricaturali – gioca all’interno di Living con la rigidità ed austerità del suo Mr. Williams, allontanandosi ferocemente dalla sua solita comicità e lavorando in sottrazione alla ricerca di una carica emotiva drammatica senza precedenti, minimalista, misurata eppure gentile.
Quella di Living si può considerare senza mezzi termini come la miglior prova di carriera di Bill Nighy, grazie alla quale non hanno smesso di aggiungersi una dopo l’altra importanti nominations alla miglior prova d’attore principale, sia per i Golden Globe Awards che per i Critics’ Choice Movie Awards e così via.
Oliver Hermanus indaga gli ambienti
Altrettanto d’interesse è poi la regia del film di Oliver Hermanus, che pur confrontandosi con un modello di cinema perfezionista e dalla intensa e irraggiungibile ricerca visiva dell’inquadratura e dell’immagine, come quello di Kurosawa, si rivela capace non soltanto di replicare certe atmosfere ma anche di approfondire maggiormente il legame tra la caratterizzazione di Mr. Williams in relazione all’ambiente in cui vive, filmando una Londra d’altri tempi estremamente sonnolenta, soleggiata e dai costumi estremamente rigidi e per certi versi intimiditi rispetto all’esplicitazione del sentimento e dell’emotività.
Laddove Kurosawa indagava l’animo umano e dunque il dramma e l’elaborazione della malattia che corrispondeva ad una consapevolezza improvvisa e profondamente destabilizzante di una scadenza davvero breve dell’esperienza terrena di Kanji Watanabe (Takashi Shimura), concentrandosi sui primi e primissimi piani dei volti dei personaggi, Hermanus indaga l’ambiente, prestando particolare attenzione al contrasto interno all’inquadratura tra dimensione dell’individuo e dimensione dell’ambiente. Nonostante una ricerca registica differente, non mancano i primi piani e le strizzate d’occhio citazioniste rispetto al capolavoro cui deve la sua genesi Living.
Una scena in particolare si rivela degna d’interesse, quella in cui Mr. Williams sfidando la pioggia, visita l’area sporca, acquitrinosa e abbandonata destinata a trasformarsi in un bellissimo parco giochi per bambini, incurante dei pericoli che corre esponendosi al freddo e al diluvio, mentre i colleghi intorno, protetti dai loro impermeabili e ombrelli restano a guardarlo sbalorditi. Si sprigiona lì la cura registica di Hermanus, così come la potenza interpretativa di Bill Nighy, decisamente ombroso, spigoloso eppure fortemente vitale. Nighy in quell’inquadratura messo in contrapposizione agli interpreti ben più giovani immobili alle sue spalle, risulta misteriosamente invincibile, seppur fradicio e visibilmente fragile nel suo cappotto da investigatore da cinema hardboiled stile Marlowe, questa è la magia del cinema.
Altrettanto magico è un momento notturno all’interno di un pub, durante il quale il Mr. Williams di Nighy confessa malinconicamente la propria condizione ad una giovane donna che conosce e non conosce, ex collega di lavoro, sottoposta per meglio dire, che spezzandosi e crollando in lacrime di fronte alla verità così definitivamente toccante e dolce di un uomo precedentemente ombroso, austero e glaciale, ne comprende tristemente solo in quel momento l’irrefrenabile e fanciullesca – dunque sfrontata – voglia di vita, proprio al termine di essa. Un momento così toccante eppure sussurrato tale da garantire qualsiasi possibile premio a quell’interprete sensazionale che è Bill Nighy, probabilmente sottovalutato fino ad oggi.
Una cosa è certa, un film come Living, dall’incredibile portata drammaturgica e ad alto tasso di emozionalità, se affidato all’autore sbagliato, sarebbe certamente entrato a far parte di quel girone infernale sempre più vasto e apparentemente infinito dei remake inutili, privi di qualsiasi motivazione e dalla genesi misteriosa. Uno di quei remake nati da una volontà autoriale mai realmente precisata e interessata unicamente ad una soddisfazione economica estremamente rara da raggiungere. Eppure Living non sembra affatto farne parte, risultando anzi un’ottima esperienza cinematografica, dalla cura registica e di scrittura decisamente sorprendente e memorabile, capace di offrire inoltre una delle migliori interpretazioni maschili viste in moltissimi anni di cinema.
Gloria a Bill Nighy che si porta il film sulle spalle… e che film.