Lo sguardo di Satana – Carrie (2013): recensione del film
Remake del film cult di Brian De Palma del 1976, Lo sguardo di Satana – Carrie rilegge la vicenda dell'adolescente vessata e bullizzata ad uso e consumo di un nuovo (e più smaliziato) pubblico di riferimento.
Forse non tutti sanno che Carrie, pubblicato in America nel 1974 (mentre in Italia arriva solo nel 1977) è il primo romanzo in assoluto di Stephen King. Il Re della letteratura horror all’epoca aveva solo 27 anni, e non credeva assolutamente nella buona riuscita del suo lavoro: a chi avrebbe davvero potuto interessare la storia di una ragazza problematica bullizzata a scuola? Il resto, come ben sappiamo, è storia: dopo l’eccezionale successo editoriale, Carrie venne trasposto al cinema da Brian De Palma nel 1976, diventando l’opera di culto che tutti oggi conosciamo. Tutto finito? Macché. Per tenere viva l’attenzione su una vicenda così fortemente trasversale e attuale, vennero fatti svariati – fallimentari – tentativi: un musical a Broadway (chiuso nel 1988 dopo appena cinque esibizioni), un tardivo seguito (Carrie 2 – La furia, 1999) e un film per la tv (2002). In forte crisi di idee (soprattutto per quanto riguarda l’horror), Hollywood nel 2013 c’ha riprovato: nasce così Lo sguardo di Satana – Carrie, che aggiorna il dramma esistenziale dell’adolescente Carrie White ai giorni nostri.
Lo sguardo di Satana – Carrie: un quarto d’ora di celebrità (non richiesta)
Per avvicinarsi a una nuova potenziale generazione di spettatori, il film di Kimberly Peirce deve necessariamente scendere a patti con la nostra ormai assodata mancanza pressoché totale di privacy: tutto viene filtrato attraverso l’occhio meccanico degli smartphone, diffuso sui social e minuziosamente giudicato da una platea di sconosciuti che può comodamente trovarsi anche dall’altra parte del pianeta. Siamo costantemente sulla bocca di tutti, pronti al primo passo falso a venire condannati senza appello.
Il terrore della goffa ed emarginata Carrie, che non possiede alcun controllo di se stessa e delle proprie potenzialità, viene quindi qui amplificato a dismisura: la canzonatura non è più solo circoscritta alla propria classe, alla propria scuola o al massimo alla propria cittadina, ma si estende al di là di qualsiasi confine immaginabile. È la deformazione del famoso quarto d’ora di celebrità profetizzato da Andy Warhol: alla viralità e alla sovraesposizione non richiesta non c’è rimedio, è un percorso senza ritorno e senza via d’uscita.
Lo sguardo di Satana – Carrie: femminile singolare
Per ottenere un punto di vista nuovo – almeno in parte – sulla vicenda, la regia di Lo sguardo di Satana – Carrie è affidata a Kimberly Peirce, autrice lontana dagli schermi dal 2008 e non avvezza al genere orrorifico. Nelle sue mani la parabola di disprezzo del diverso che è il cuore pulsante della pellicola (e del libro di riferimento) viene anzitutto filtrata dagli occhi della protagonista: non guardiamo tanto ai bulli che la manipolano e la satireggiano, quanto al suo potente e indescrivibile disagio, che in qualche modo rieccheggia il riuscito esordio dietro la macchina da presa di Peirce, Boys Don’t Cry (1999), che regalò a una giovanissima Hilary Swank il primo Oscar della sua carriera.
Carrie è il risultato di una educazione sbagliata e demonizzante, quella che le ha imposto la bigotta madre Margaret (interpretata da una sempre efficace Julianne Moore). Se la ragazza si vergogna di esistere ed è fin dal primo sguardo la vittima sacrificale prediletta della malizia e della cattiveria dei suoi compagni, è a causa dell’iperreligiosità e della rigidità della genitrice, che per prima soffoca le sue caratteristiche portandola alla passività e all’inconsapevolezza (ben rappresentata, come nel film originale, dalla disperazione con cui Carrie scopre nelle docce le sue prime mestruazioni).
A mancare tuttavia, in questo remake che pur si muove con dignità mostrando grande rispetto nei confronti sia del capostipite cinematografico che della sua leggendaria matrice letteraria, è l’alone di mistero che ogni horror dovrebbe avere per sua stessa definizione. Come se si temesse una malinterpretazione da parte del pubblico, la psicologia della protagonista viene spiegata fin nel minimo dettaglio, limitando così la complessità di un carattere (in cui l’attrice Chloë Moretz si cala con ammirevole caparbietà) che possiede molte ombre e molte anomalie.
Carrie non spaventa e non inquieta, e potrebbe essere una scelta di campo più consapevole di quanto si sia portati a pensare: la vendetta diventa qui l’esplosione di una forza telecinetica che rimanda inevitabilmente al superpotere di una supereroina, ovvero a un’idea di cinema fantastico che è diventato in brevissimo tempo il riferimento culturale per eccellenza dei teenager e degli young adult a cui il film è diretto. Un target più smaliziato, ma meno abituato all’horror privo di compromessi fiore all’occhiello della cinematografia americana degli anni ’70 e ’80.