TSFF 2021 – Lo Sguardo di Ulisse: recensione del film con Harvey Keitel
Il regista americano A. torna nella sua città natale per proiettare il suo ultimo film e ritrovare le bobine scomparse dei fratelli Manakis. Un viaggio dell'Eroe nella cornice del conflitto balcanico.
Nella sua giornata conclusiva il Trieste Film Festival 2021 ha deciso di proiettare Lo Sguardo di Ulisse (To Vlemma tou Odyssea), film diretto nel 1995 da Theodoros Angelopoulos e vincitore del Grand Prix Speciale e del Premio FIPRESCI al Festival di Cannes. Il film è dedicato alla memoria di Gian Maria Volonté, scomparso durante le riprese e sostituito da Erland Josephson.
Il viaggio verso casa di A. (Harvey Keitel) è un νόστος memoriale, volto al recupero di immagini, credenze, e rinnovate consapevolezze sul tragico sfondo del conflitto balcanico, un incontro metafisico in cui il tema del confine assume la fisionomia di un personaggio ostile e si fa parte stessa di un racconto complesso, dai contorni sfumati, dai piani narrativi avviluppati in una fluidità che invece rigetta ogni confine. Il ritorno a casa di A. è l’espediente che, velato dietro la proiezione del suo ultimo, controverso film, apre il respiro alla ricerca del vero oggetto di ossessione del regista: tre bobine di pellicola, ormai scomparse, dei pionieri del cinema Manakis che viaggiando lungo i confini balcanici, ignorando ogni conflitto etnico o nazionale, avevano filmato la vita di persone comuni, di semplici tessitrici macedoni devote al loro lavoro. Una ricerca volta a ritrovare, dopo anni di compressione ideologica e terrore, il senso di purezza ed innocenza della storia attraverso gli occhi dei suoi abitanti.
Lo sguardo di Ulisse: Harvey Keitel è Ulisse nel Viaggio dell’Eroe
Il viaggio fasico dell’eroe, da Florina a Skopje, da Monastir a Bucarest, da Belgrado a Sarajevo è l’occasione per il regista A. di ripercorrere la memoria, sospinto dall’emotiva nostalgia che affligge colui che è costretto all’ignoto. Punto d’arrivo, la sua Itaca, preziosa e distante, inafferrabile scrigno del suo oggetto del desiderio: le bobine dei fratelli Manakis finalmente sviluppate, un epilogo che è, a tutti gli effetti, un incipit per un’altra avventura.
Non è un caso partire dalla fine, concludersi per poi librarsi all’alba di un nuovo scopo vitale. Al montaggio staccato e forsennato dei flashback, spesso invisi al pubblico spettatore e di difficile comprensione, il regista Theodoros Angelopoulos predilige i lunghi e gravi piani sequenza che, uniti ai movimenti di macchina da presa a semicerchio, aiutano lo spettatore ad empatizzare con i personaggi nella catarsi filmica, protagonisti umani e fallibili. Un eterno ritorno in cui passato e presente si fondono senza tregua, senza sospensione di incredulità, in un flusso narrativo che obbliga i personaggi ad incarnare se stessi in un tempo diverso conservando le stesse sembianze.
“Se l’Anima deve conoscere se stessa, essa deve rivolgere lo Sguardo all’Anima stessa”
Tratta dall’ Ἀλκιβιάδης di Platone la citazione sottolinea il potere del cinema, del grande occhio, metafora e traduzione di uno sguardo che, nell’atto visivo, si fa memoria. Attraverso il cinema A. travalica ogni confine, vanifica l’atrofia del “border” e tutto si fa territorio e testimonianza di una barbarie storica disumana perpetrata dalla verità del comunismo, contro ogni potere contestatore.
Nella suggestiva trasposizione filmica dell’eterno ritorno e della circolarità del Tutto le tre bobine rappresentano allora νόστος (Viaggio), μνήμη (Memoria) e νοσταλγία (Nostalgia), un’opportunità per entrambi i registi, Angelopoulos e la sua creazione A. di sedare il confine, e attraversarlo per riprendere la ricerca.