L’orto americano: recensione del film di Pupi Avati
Il ritorno al gotico padano, passa per il male atavico e sinistro di un’America provinciale nient’affatto estranea al cinema di Avati. Torniamo a Il nascondiglio, pur sprofondando nei fantasmi della guerra, della scrittura e della mente. Con un grande Filippo Scotti. In sala dal 6 marzo
Spesso lo dimentichiamo, ma il gotico padano non è un sottogenere, né tantomeno una derivazione linguistica di un filone estremamente ampio quale è l’horror. Ci troviamo anzi, di fronte ad un vero e proprio linguaggio e ad una stilistica, che deve la sua nascita e conseguente esplorazione – o evoluzione – a Pupi Avati, un vero maestro del cinema e non un semplice autore. A sei anni di distanza dall’ultima incursione nel genere che inevitabilmente gli appartiene e al quale aderisce ormai visceralmente, ossia Il signor diavolo, Avati torna alle ombre lunghe delle lapidi, una volta giunta l’oscurità e alle antiche magioni di provincia, tanto italiche, quanto statunitensi e così alla paura. Una paura che non è mai spudoratamente dichiarata, soltanto suggerita. Un sussurro sinistro, accompagnato da grida e parole perdute nella notte, o altrimenti sepolte. C’era grande attesa per L’orto americano, a partire dalle pagine dell’omonimo romanzo dello stesso Avati, fortemente evocative e interessanti. Si perdoni il gioco di parole, l’attesa non è stata disattesa, anzi.
Sul fantasmatico e la traccia narrativa del tempo e del mostro

Vale per ogni grande storia, c’è un prima e un dopo e un amore rincorso, seppur apparentemente perduto, che sopravvive al tempo e alla dinamica crudele della mente costretta a scordare, poiché fragile, poiché logorata dall’oscurità e dai fantasmi di un dolore sopito. Un dolore che fa i conti sia con la guerra – Nell’Italia appena uscita dal secondo conflitto mondiale, un amore giovane e per certi versi impossibile, nasce tra macerie, sguardi e silenzi -, che con i traumi del passato, probabilmente familiari, eppure mai realmente approfonditi. Ecco che quel prima e dopo, tra le sequenze fantasmatiche de L’orto americano, prendono ad intrecciarsi, fino a confondersi, divenendo poi irrintracciabili, poiché sepolti, poiché protagonisti di un rimosso crudo e torbido, che guarda sempre alla famiglia e alle atmosfere circostanti.
Curiosamente lo sguardo di Avati, giunto al suo quarantaquattresimo lungometraggio da regista, è rivolto al passato. La sensazione infatti, è che L’orto americano tenti di ricondurci almeno fino al 2007, l’anno de Il nascondiglio, incursione meno nota, forse minore, tanto sul suolo complesso ed evocativo del gotico padano, quanto su quello americano. Ancora una volta l’Iowa, ancora una volta una casa maledetta, pur trattandosi nel caso di quest’ultimo lungometraggio, degli spazi circostanti e ancor più direttamente di un orto dimesso, abbandonato a sé stesso e per questo, alla ricerca disperata di un orecchio che sappia ascoltare, dunque di un salvatore.
L’elemento della dannazione è tipico e ricorrente e così la traccia sotterranea, eppure onnipresente della parabola religiosa. Dunque di colui che insegue e persegue la dannazione e i dannati, facendo tutto ciò che è possibile, per salvarli, salvando anche sé stesso. Qui il giovane scrittore rincorre un amore e al tempo stesso un mostro, che per certi versi lo insidia – la scrittura senz’altro lo anestetizza, confinandolo ben presto ad una realtà differente e salvifica – e per altri lo conduce all’improvvisa consapevolezza di una mente alla deriva, che può osservare il mostro, pur allontanandolo, restandogli estraneo.
L’orto americano: valutazione e conclusione

Non era affatto semplice immergersi nuovamente nei linguaggi d’atmosfera e poi di narrativa di questo universo linguistico così evocativo, spettrale e angosciante. Pupi Avati, come detto, da vero e proprio maestro di cinema, tenta nuovamente l’impresa e supera sé stesso. L’orto americano è un’osservazione tetra e acuta dei mostri che ci portiamo dentro e di quelli che ci ritroviamo accanto, capaci di perseguitarci e forse in qualche modo, perfino sedurci. Filippo Scotti in tal senso, offre un’interpretazione estremamente efficace, lavorando di sottrazione, riuscendo in qualche modo a generare un rimosso, che pur sopito e celato, viene fuori sempre più, scatenandosi in un bianco e nero curiosamente Lynchiano e simbolico. Protagonista in qualche modo, insieme allo scrittore di Scotti, di questo lungometraggio così feroce e potente.
Ancora una volta, un individuo la cui mente non può che andare lentamente alla deriva. Un giovane uomo la cui serenità e memoria sono evidentemente a pezzi, logorate dai fantasmi di ciò che avrebbe potuto essere e invece non è stato. Nonostante il destino avverso, la rincorsa diviene l’ultima speranza, anche se i mostri suggeriscono di arrendersi, poiché di fronte alla morte nulla più è possibile, se non la resa e il definitivo abbandono.
L’orto americano, come moltissimi grandi titoli, è un film fuori dal tempo, atipico e memorabile. In sala da giovedì 6 marzo 2025, distribuzione a cura di 01 Distribution.