L’ultimo dominatore dell’aria: recensione del film di M. Night Shyamalan
Un sogno bellissimo, un discreto tentativo, un pessimo risultato.
Sono indubbie le qualità di M. Night Shyamalan, un cineasta tornato in auge recentemente con Split (2016) e con l’imminente uscita di Glass (2019), ma capace di regalare pellicole come Il sesto senso (1999) o Unbreakable – Il predestinato (2000) nella prima fase della sua carriera. Eppure il percorso dell’autore indiano è segnato da un grande buco nero della durata di quasi 10 anni, in cui sembrava essersi irrimediabilmente perso, incapace di ritrovare un nuovo slancio artistico.
L’ultimo dominatore dell’aria del 2010 costituisce forse il punto più basso della parabola di flessione di Shyamalan, ma ha in sé tutti gli indizi della rinascita che si sarebbe concretizzata da lì a qualche anno.
Vincitore di 5 Razzie Awards 2010 (tra cui peggior film, peggior regista e peggior sceneggiatura), L’ultimo dominatore dell’aria doveva essere il primo capitolo di una trilogia, successivamente mai realizzata, basata sulla serie animata Avatar – La leggenda di Aang della Nickelodeon ma, dato l’enorme flop al botteghino e la totale bocciatura della critica, l’unico risultato che ottenne la pellicola fu quello di passare alla storia come uno dei peggiori film mai realizzati.
Eppure le premesse erano tutt’altre: per la produzione vennero spesi 150 milioni di dollari, divenendo la più costosa sia per Nickelodeon che per Shyamalan e, per la conversione della pellicola da 2D a 3D, venne investito un extra tra i 5 e i 10 milioni di dollari. Se vogliamo anche la scelta di un nome importante come quello del regista indiano doveva costituire una garanzia per il successo del progetto, ma tutt’oggi questo film rimane (apparentemente) il più estraneo di Shyamalan.
L’ultimo dominatore dell’aria: la trama
In un mondo dove pace e prosperità si reggono sul precario equilibrio fra le quattro nazioni che gestiscono il dominio di ognuno degli altrettanti elementi: Aria, Acqua, Terra e Fuoco, l’unico garante è l’Avatar, incarnazione delle divinità in grado di comunicare con gli Spiriti del mondo e dominare tutti gli elementi. Nonostante l’immortalità dell’Avatar sia garantita dalla sua capacità di rinascere ogni volta come un membro di una delle quattro popolazioni, egli scompare misteriosamente, lasciando il mondo in balia di una guerra causata dalla belligerante Nazione del Fuoco.
A 100 anni dalla catastrofica scomparsa tutti i Nomadi dell’Aria sono stati sterminati e, dopo la conquista totale del Regno della Terra, anche le Tribù dell’Acqua sono sull’orlo di capitolare. Ma proprio quando ormai il mondo sembra essersi rassegnato all’assenza definitiva dell’Avatar e alla vittoria schiacciante della Nazione del Fuoco, due giovani membri della Tribù dell’Acqua del Sud, i fratelli Katara (Nicola Peltz) e Sokka (Jackson Rathbone), trovano durante una battuta di caccia un gigantesca creature simile ad un mammut e un ragazzo intrappolati nel ghiaccio. Il giovane risponde al nome di Aang (Noah Ringer), egli è l’ultimo sopravvissuto dei nomadi dell’Aria ed ha dei tatuaggi molto simili a quelli delle reincarnazioni dell’Avatar.
L’ultimo dominatore dell’aria: un fantasy alla Shyamalan
Andando contro la credenza comune, non può sorprendere la scelta di Shyamalan di dirigere un film come L’ultimo dominatore dell’aria, perché la storia che racconta è esattamente in linea con la fantasia e i gusti del cineasta indiano.
Sebbene bisogna fare i dovuti distinguo, dati soprattutto per la differenza totale dei contesti, ci sono moltissime assonanze tra la caratterizzazione dell’eroe Aang ed il suo percorso e le peculiarità degli eroi di Shyamalan. I vari temi dell’essere fautore dell’equilibrio del mondo, della predestinazione e delle gravose responsabilità tipiche dell’eroe sono tutti rintracciabili nella mente degli protagonisti dell’autore indiano, soprattutto in Unbreakable – Il predestinato.
E l’approccio di Shyamalan alla storia è e rimane ottimo: un ragazzino troppo spaventato dalla vita da messia alla quale è destinato deve compiere un cammino interiore per accettare la sua missione e le rinunce che comporterà. Il tutto condito da una cosmologia in salsa orientale, ma completamente rielaborata secondo uno schema narrativo puramente occidentale. Un blockbuster per l’infanzia risultato di una quantomeno intricata e disarmonica fantasia, figlia di una globalizzazione incalzante. Insomma una trappola mortale, rimessa in piedi in modo assolutamente credibile, lineare e dignitoso dall’autore indiano.
Gli errori del regista semmai sono da ricercare nella messa in scena. L’eccesso di zelo più figlio dell’insicurezza nell’uso delle tecniche e degli effetti speciale, che del rispetto; la voglia di avvicinarsi ad un immaginario simile all’Avatar di Cameron e di staccarsi da quello del Signore degli Anelli di Jackson, a cui è impossibile non pensare in almeno una o due parti del film, legano le mani a Shyamalan, il quale non riesce a sfornare una pellicola fantasy in linea con la strada moderna. Anche se tutta la grazia dell’artista indiano torna a farsi valere quando si tratta di paragonare la pellicola al fantasy anni ’90, kitsch e a lungo andare stomachevole.
Essendo un autore intelligente, Shyamalan lascia da parte la spettacolarità e la brutalità che si può ritrovare nelle colossali scene di guerra dei fantasy moderni, per mettere la lente di ingrandimento sui dubbi morali dei personaggi e permeando l’azione di una dolcezza e delicatezza data in sede di post-produzione, con l’uso di un montaggio più lento e valorizzando le riprese lunghe e sinuose che scandiscono ogni movimento dei personaggi. Il risultato purtroppo è melenso e troppo soft.
In conclusione L’ultimo dominatore dell’aria impallidisce impietosamente davanti ai fantasy moderni, ma l’intenzione di Shyamalan è, come sempre, di fare un film suo, un fantasy autoriale. I problemi dunque sorgono quando l’autore sembra incagliarsi inesorabilmente nei limiti del genere con cui si misura, andando a creare un ibrido, meglio del passato, ma decisamente scadente per il futuro. Una pellicola fragile, schiacciata dalla voglia di creare qualcosa di nuovo, personale e valido, ignorando tutte le strade già tracciate da altri autori. Un sogno bellissimo, un discreto tentativo, un pessimo risultato.