L’Uomo dei Ghiacci – The Ice Road: recensione del film con Liam Neeson
Liam Neeson è L'Uomo dei Ghiacci, nuovo action-thriller prodotto da Netflix e disponibile nelle sale italiane da giovedì 2 dicembre 2021.
Cosa succede se si unisce l’uomo dietro la sceneggiatura di film d’azione cult come Jumanji, Die Hard e Armageddon e l’attore protagonista di Io vi troverò nientepopochemenoche Liam Neeson? Nulla di eccezionale, a dire il vero. Succede L’Uomo dei Ghiacci – The Ice Road. Film testosteronico (ma co-protagonista al femminile per rispondere ai tempi) con tre camion su kilometri di strade congelate. Il sogno di un bambino è purtroppo un film piuttosto infruttuoso di emozioni, pronto ad abbandonare la cabina dei ricordi a fine visione. Dal 2 dicembre nei cinema italiani grazie a BiM Distribuzione e prodotto da Netflix, L’Uomo dei Ghiacci vanta nel cast anche Laurence Fishburne, che in questo periodo avremmo preferito rivedere accanto a Neo in Matrix 4.
Liam Neeson è L’Uomo dei Ghiacci
Jonathan Hansleigh non lavora su un brutto soggetto. Un thriller al cardiopalma su autoarticolati è possibile. C’è un piccolo film per la televisione dal titolo Duel – si dal caso essere l’esordio di Steven Spielberg – che può confermarlo. Ma anche Vite Vendute (Le salaire de la peur) di Henri Clouzot era un modello cui si era guardato all’annuncio de L’Uomo dei Ghiacci. Il progetto di Hansleigh prende però altre vie, sbandando senza troppo preavviso sullo strato fine di strade congelate.
In L’Uomo dei Ghiacci Liam Neeson guida un gruppo di temerari sui cento kilometri di ghiaccio attraversati solo dai camionisti più esperti del Nord Dakota. In Aprile, quando la spedizione si avvia per la pericolosa missione, il ghiaccio inizia a sciogliersi. Se ci si ferma, si muore. Se si accelera troppo (o troppo poco), si muore. Il margine di errore segue lo spessore del ghiaccio a inizio primavera. Ma Mike deve lavorare. Con il fratello, veterano di guerra affetto da afasia, cercherà di salvare i minatori e di portare a casa i duecentomila dollari di ricompensa utili a comprare un nuovo track.
Al loro fianco però anche chi quella missione non la vuole portare a termine, provando in ogni modo a fermare gli autisti e lasciare così morire i minatori sotto gli strati di detriti di una polveriera pronta a esplodere. Il nemico in L’Uomo dei Ghiacci è dunque ancora l’essere umano, e non certo l’impervia sfida glaciale, parte di una natura feroce ma innocente. Colpevole è invece chi, per amor di profitto, seguace silente e complice di un efferato Capitalismo, preferisce il silenzio di molti alla verità che manderebbe a gambe all’aria i responsabili della miniera.
“I nostri eroi americani” di cui invero parla L’Uomo dei Ghiacci sono ancora la resistenza di un’ideologia e di un mondo agognato di libertà e rispetto. Verrebbe da parlare di americata, sempre che sul termine ci fosse comune accordo. Non è solo il fratello sopravvissuto all’Iraq a confermarci il vero interesse di Jonathan Hansleigh in L’Uomo dei Ghiacci. Lui è il sacrificio previsto, l’uomo-martire immolato alla causa di un Paese (le bandiere giustapposte qua e là vi ricorderanno quale, in caso di dubbi) che vuole ancora raccontarsi dalla prospettiva di chi il camion lo guida e chi la miniera la scava. Entrambe le parti sono però soggette alla bramosia senza pietà dei volti reali di un Nord America alquanto differente e votato al profitto nonostante tutto. “Ordinaria amministrazione”, viene detto con rammarico sul fondo della terra. In un certo modo, mentre i Track provano a non crollare nelle crepe di ghiaccio, e i minatori esalano gli ultimi respiri a kilometri di profondità, L’Uomo dei Ghiacci racconta che quegli eroi tanto cari a certo cinema hollywoodiano, e quel Paese così centrale nelle sue storie, sono ormai sul punto di franare su un terreno più impervio di prima.
Cinema classico o cinema vecchio?
L’Uomo dei Ghiacci è così un film molto classico, improntato al rapporto uomo-natura sciolto nelle possibilità tecniche e nell’eroismo tenace del primo. Non mancano le occasioni per del sano porno da inegneri, con i motori dei track smontati e ricostruiti mentre la cinepresa gira attorno come in un episodio di Come è fatto.
È quell’ingegneria della macchina, cui fa capolino l’aspetto umano di chi la controlla, a essere il cuore pulsante degli eventi. Ma Jonathan Hansleigh in L’Uomo dei Ghiacci non riesce a tenere al centro delle vicende i suoi personaggi, e anche quando il thriller cerca il dramma la storia prosegue senza grande slancio. Non è però il cinema di movimento che ci si potrebbe aspettare. L’Uomo dei Ghiacci vive in realtà dei momenti di stasi. Quando una gomma si squarcia, un camion si blocca, il film cerca di innestarsi nel trasporto dello spettatore. L’azione è nella sua interruzione, ma fallisce laddove il gruppo protagonista è guidato da dinamiche di rapporti prevedibili e più simili a un binario che a una strada senza indicazioni.
E poi c’è Liam. Capiamoci, Neeson entra in scena e la sala si ferma. L’attore ha ancora un carisma lontano dall’affievolirsi. Ma non possiamo ignorare come il suo gigionamento clineastwoodiano dell’uomo inamovibile che ti schianta con un pugno e segue la diritta via (anche se di ghiaccio, anche se impossibile) sembri alquanto desueta e poco loquace.
Lui è “L’unico che può fare questo lavoro”, il deus incarnato che porterà i minatori in salvo. Protettore del fratello, si trascina lungo l’andirivieni di difficoltà armato di frasi da cinema-parodia. Quando una morte imprevista lo porta al limite, guarderà verso il vuoto promettendo vendetta (come in un classico Meme su Liam Neeson): “Mi hanno fatto arrabbiare, è un fatto personale”.
La sala ride, perché tanto L’Uomo dei Ghiacci cerca l’eccesso quantitativo (i kilometri da affrontare sono sempre innumerevoli, le tonnelate da trasportare inaudite) tanto la qualità del suo racconto perde di sostanza. Si succedono impedimenti difficili da seguire o apprezzare per la loro messa in scena. La CGI fa esplodere camion, montagne, ponti come se ogni soggetto in scena fosse uguale all’altro. Non c’è l’enfasi, né l’interesse che nutriva invece un cinema che quei camion, montagne e ponti li faceva davvero saltare in aria. Tutto ciò che può essere digitalizzato – con risultati di certo opposti a chi invece la modellizzazione in CGI la sa rendere un’arte – viene ripreso con pigrizia, ricordando una certa estetica da mestierantei che per anni ha vissuto in cinema da videocassetta (oggi nei fondi dei cataloghi streaming) e videogiochi per mobile.
L’idea, l’analogia, la ricerca di un cinema che salvi gli USA da un sistema corrotto con un pugno sul naso si perde prima ancora di fare il pieno dei track. Il cinema di Jonathan Hansleigh è l’epilogo stanco di un genere che non può più vivere nell’oggi, dove la sala resiste solo per chi tiene alta l’attenzione e si prende cura dei soggetti. Il resto, si estinguerà. Non perché brutto (semmai anche per quello), ma perché inutile e incapace di incontrare uno spettatore in cerca di continue ragioni per skippare oltre.