The Tragedy of Macbeth (2021): recensione del film di Joel Coen
Nuovo adattamento dell'opera di Shakespeare per mano di Joel Coen. Su Apple TV+ dal 14 gennaio 2022.
Li chiamavamo fratelli Coen, spesso sbagliandone la dicitura (ci sta un’h da qualche parte?). Ora il pubblico dovrà tenerne a mente i nomi, già inscritti nei diari dei sogni dei cinefili più affezionati a quei cineasti con due piedi (uno a testa) nel cinema di genere e altrettanti nel dolce nido dei Festival d’autore. Dal 14 gennaio 2022, c’è solo Joel e il suo The Tragedy of Macbeth approdato su AppleTV+. Tranquilli: non è una situazione da Oasis. È solo il primo tentativo in solitaria del più anziano tra i due. Il sodalizio era talmente segnato tra le fiamme della celluloide che persino Wikipedia li cinge assieme in una sola pagina. Ora, The Tragedy of Macbeth ospita accanto una dicitura: “Solo Joel Coen”. Una griffa che potrebbe rientrare presto nelle “eccezioni” o dare inizio a un’altra storia. A quel punto, in una realtà che ritrova il destino tra gli URL del web, le pagine si sdoppieranno. Forse anche per questo gioco di fato, Joel si è ritrovato tra le mani Shakespeare. Il suo Macbeth attraversa decine di iterazioni cinematografiche, alla ricerca della sintesi. Da Welles a Kurzel, fermate previste: Kurosawa, Polanski, Goold. Se fosse possibile solo la sintesi, parleremmo di un fallimento.
Resta forse solo il mero bricolage di altri adattamenti o esiste – in un confine sottilissimo che Coen nasconde assieme alla luce di un sole pallido dietro i veli del set – l’opportunità di riportare al centro la tragedia? Ai vaticini delle streghe, il corpo di Macbeth sussulta, ma non il cinema di Coen: monolitico come il castello del Re, e dunque altrettanto fragile. È la possibilità che siano reali a renderli tali, ad aprire il varco nel baratro del destino e ad armare la mano dell’assassino. È Macbeth la storia di chi accetta dal destino solo sorrisi e calici di vino. Di chi ci crede quando crede in lui. E di chi lo maledice nell’atto di morire. Ugualmente, Joel Coen dovrà essere pronto a chi – lambito da una forma che magnifica la Tragedia di eleganza e rigore – ne noterà i limiti.
Bello è il brutto e brutto il bello: In volo, nella nebbia e l’aria sporca.
Macbeth: vizio di forma come libertà artistica?
Sembra di osservare il cielo, ma è la terra che gli occhi guardano. Joel Coen muove i primi passi nella tragedia shakespeariana afferrandosi a un gioco illusionistico. I corvi – “rauchi annunciando l’ingresso fatale” – avvolti dalla nebbia sorvolano la terra degli uomini. La prospettiva aerea annuncia la soggettiva del fato, i cui occhi osservano inermi e giudiziosi gli eventi di una landa che anticipa la Storia della civiltà.
Facile per Joel Coen porci lì: distanti. Come le tre sorelle che promettono a Macbeth un futuro tanto luminoso quanto infruttuoso, osserviamo l’inevitabile, seguiamo il conosciuto. È il potere di Shakespeare, secondo solo ai greci: conosciamo la storia, doppiamo le battute. Dunque sappiamo, ma possiamo ancora vedere. Amare il viaggio. Ed è a questo – sulla scia lunga di Welles e Kurosawa – che Joel Coen decide di costruire.
Il suo Macbeth è un’idea teatrale che poggia piedi di marmo e sabbia fine su architetture che accentuano l’inadeguatezza dell’uomo. Denzel Washington non può – non riesce a – riempire gli spazi. A lui, Coen dedica totali, mezzi busti, un insieme sintattico che realizza il vuoto attorno: quest’uomo nominato dalle tre sorelle è Re di ogni cosa ma padrone di alcunché.
Diversa, ma ugualmente priva di quel controllo che l’uomo cerca sul contesto, è Frances McDormand. I nostri occhi la seguono, viziati dai primi piani che permettono di studiare l’intreccio di reti disegnato dai capelli sempre ritti ma mai armonici, ogni ciuffo per conto proprio; a disegnare destini impercorribili. Assomigliano all’incrocio in cui Banquo (Bertie Carvel) incontrerà la morte: due strade che non percorreremo mai. E il figlio – destinato al trono – si salverà solo tra le rovine di un casolare posto al centro delle due vie: dove il fato attende prima di incamminarsi.
Ogni scena si colma di idee in Macbeth (2021)
Di Coen e il suo The Tragedy of Macbeth possiamo giudicare solo la forma. La stessa che ci attira a sé in una produzione A24, pensata per chi brama il formato d’immagine 1:1,33 e i bianchi e neri finti come i corvi che li attraversano. Se Shakesperare rimane saldo alla sceneggiatura, è dunqe la messa in scena a interrogarci. Il confine è uno soltanto: cosa ne fa Coen di tutta questa struttura di sbalorditiva presenza e incredibile suggestione? Nei primi minuti molto poco. Ci stupisce, ma resta sulla superficie. Il voto al testo supera persino la scenografia più ampia, riempita dai monologhi di Macbeth recitati quasi a leggio. Ogni scena si colma di idee: le streghe che sono una e trina, che disegnano un triangolo – ossia il divino e la donna, i due protagonisti della tragedia – , il ritaglio dei personaggioscontornati dalla nebbia che elimina lo sfondo e li rende figurine del destino e la trama del tessuto della tenda che si trasforma nella trama di Lady Macbeth. Le suggestioni si appropriano della storia, perendo comunque d’innanzi al monolite del testo, inamovibile. A uscirne illeso è invece il suono, libero di parlare allo spettatore una lingua inesplorata e propria di questo cinema di forma: il sangue che sgorga cadenzando i passi del tempo e della morte è un dono alla tragedia, rinvigorita dal potere di un microfono o di un ridoppiaggio, lo stesso che suona le braccia della strega come fossero rami scossi dal vento.
È l’ultimo atto a liberare Coen dalle restrizioni di questo quadrato, che sembra così allargarsi e prendere respiro: le scene in notturna lasciano che sia il buio a scontornare Macbeth, e così i confini dell’immagine prendono ogni spazio possibile (seppur, purtroppo, limitato dallo schermo di un computer o una TV oltre cui la realtà non può cessare di esistere). Al cinema, però, sarebbe stato un bagno di neri con l’Uomo al centro, il Macbeth trafugato del senso e gettato alle fiamme della follia.
Per ingannare il mondo assumi l’aspetto del mondo/ abbi l’aspetto del fiore innocente ma sii il serpente che vi sta sotto
Il Macbeth di Orson Welles si ergeva sul fango: dove acqua e sabbia si allacciano per lasciare all’uomo l’illusione della creazione. Una statua in terracotta perdeva la testa tra le mani delle streghe. The Tragedy of Macbeth di Joel Coen, invece, abbraccia la geometria. Fende l’aria con le ombre, le piega come in un mondo dominato da polarità distintinte che tingono ogni scelta di un dubbio morale. L’impegno architettonico si lascia ammirare, seppure difficile sia ignorare il testo originale, recitato e ripetuto come una cantilena sprofondata tra le memorie di una cultura. È il potere della tragedia, di questa in particolare: amata dal cinema per la sua schiettezza umana. La stessa che viene meno ogni volta che Joel Coen sente di dover dare a ogni frame il compito di rivelare un segreto nascosto. Fosse stato muto, questo Macbeth sarebbe stato un capolavoro. Perché è già tutto lì. Nell’insieme invece ne viene meno la possibilità di vivere l’aspetto umano di queste sagome dell’uomo messe a fronte del destino. Rimane però il nuovo zenit della tragedia shakespeariana al cinema. Joel Coen, che di impegno ne ha messo persino dove bastavano le parole (o bastava toglierle), ha rintracciato un nuovo senso nella trasposizione tragica sfidando il prossimo Macbeth pronto a farsi sussurare da Lady Cinema la più loquace delle promesse: “riprovaci tu: rigira la tua versione”.
Un racconto fatto da un idiota, pieno di grida e furia, che non significa niente