Malala: recensione del film di Davis Guggenheim

Quando la normalità viene silenziata dalla tirannia, ogni azione fatta per contrastarla è meraviglia, specie se a rompere il muro dell’ingiustizia è la voce determinata, coraggiosa e genuina di una ragazzina di 11 anni: Malala Yousafzai.

Malala: ‘Racconto la mia storia non perché è unica ma perché non lo è’

Dopo aver siglato col sangue versato la sua battaglia per l’uguaglianza dei diritti, aver solcato con l’inchiostro le pagine del best-seller Io sono Malala, adesso la sua storia attraversa il grande schermo grazie alla sensibilità e all’eccellenza del regista premio Oscar Davis Guggenheim che, amalgamando il documentario all’animazione, riesce a tratteggiare il profilo della famiglia Yousafzai con naturalezza, epicità e un pizzico di magia.
Servendosi di una grafica suggestiva e dai colori tenui, il regista di Una scomoda verità e Waiting for “Superman” apre il sipario della realtà raccontando la leggenda pashtun dell’eroina afgana Malalai di Maiwand la quale, vedendo l’esercito indietreggiare dinnanzi all’avanzata dei soldati inglesi, salì sulla cima di una montagna per infondere loro fiducia e coraggio e, nel guidarli verso la vittoria, morì sul campo di battaglia. Il significato negativo intrinseco che si nasconde nel nome di Malala, diviene però per il padre della protagonista simbolo di coraggio, affermazione, identità.

Quel nome è stato di grande ispirazione per me, al punto di pensare che se avessi avuto una figlia, l’avrei chiamata come la Malalai di Maiwand.  C’era una profonda passione nel mio cuore quando ho dato a mia figlia lo stesso suo nome,  pensando che avrebbe avuto un ruolo importante.  Avrebbe avuto una vita.  Avrebbe avuto l’ammirazione di tutti. Avrebbe avuto un’identità, come la ebbe Malalai di Maiwand. – dice Ziauddin Yousafzai.

La storia della più giovane Premio Nobel per la Pace (ricevuto nel 2014) esplode all’attenzione dei media il 9 ottobre del 2012, quando un gruppo di Talebani fa irruzione nello scuolabus in cui viaggiano lei e le sue amiche – Shazia Ramzan e Kainat Riaz – colpendola al sopracciglio sinistro e causandole un danno di cui porta ancora addosso i segni. Lì, in quel limbo disperato al confine con la morte, il suo corpo fu costretto a raggomitolarsi nel dolore fisico, mentre le sue idee iniziarono a svestirsi ulteriormente della debolezza e della paura, rendendola una persona ancora più forte.

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Nel documentario firmato da Guggenheim lo spettatore sopraggiunge al dramma dell’attentato dopo aver fatto un girotondo nella vita domestica di questa eroina contemporanea: le voci dei suoi fratelli e dei suoi genitori ci fanno sorridere davanti alla normalità adolescenziale, al classico rapporto odi et amo che si stipula tra fratelli, alla paura del padre e della madre, al loro sentirsi inadeguati, sfiduciati e al contempo orgogliosi della figlia che hanno messo al mondo.
Direte: perché interpellare l’intera famiglia quando sarebbe bastato chiamare in causa solo Malala? Perché la sua personalità è la sintesi dell’ambiente in cui è cresciuta. L’amore per la cultura è un lascito prezioso immesso in lei fin dalla tenera età, così come la volontà di ribellarsi alle tradizioni, alle abitudini. Al punto che la protagonista stessa dice: Se avessi avuto un’altra famiglia adesso sarei sposata e avrei due bambini.

Attraverso la sua storia lo spettatore ha modo di rivedere da vicino quelle situazioni che chissà quante volte ci sono passate sotto gli occhi attraverso la tv, concentrandosi in particolar modo sulla figura di Mullah Fazlullah, il leader dei talebani sulle cui spalle pesa il rinvigorimento di quello status di Medioevo mentale cui è soggetto il Pakistan (e non solo) e la zona della valle dello Swat in particolare, di cui è originaria Malala e in cui si concentra la scena. Il suo ordine di limitare la vita sociale delle donne e la loro istruzione suscita paura e conduce Malala, a soli 11 anni, a tenere un blog anonimo per la BBC. Quella voce però non basta, tocca metterci la faccia. Così la giovane si sottopone all’attenzione dei media a grida con tutta la forza il suo diritto a esistere e a fare ciò che vuole; il diritto all’istruzione, il diritto a una vita che va oltre i pilastri della religione e del bigottismo, oltre la volontà altrui di dominare seppellendo le coscienze sotto al polvere dell’ignoranza.

Ciò che più colpisce, oltre al vigore delle parole pronunciate dalla ragazza, è il modo in cui queste vengono rappresentate: ricami che si disperdono nell’aria, raggiungendo le menti e aprendo gli occhi verso prospettive migliori, come un balsamo miracoloso.

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Guggenheim traccia la storia di Malala, in simbiosi col padre, l’attivista Ziauddin Yousafzai, ponendola in bilico tra la normalità e la spettacolarità, tra i discorsi impegnati con politici e personalità dello spettacolo alle situazioni impacciate con i coetanei. Ci introduce pienamente nel campo d’azione della sua missione, nei suoi viaggi tra Kenya, Nigeria e nel resto del mondo, a dispensare cultura in quelle isole rosa che ancora oggi sono costrette a nascondersi e a lottare per rivendicare un diritto che dovrebbe essere assodato, intoccabile e indiscutibile; quello a fare della propria vita ciò che si desidera, a dispetto del nome, del sesso e del paese di provenienza.

Un bambino, un insegnante, un libro e una penna possono cambiare il mondo, dice Malala. Parole semplici, proprio come le azioni che suggerisce di fare. Una rivoluzione pacifica, interiore, che in parte la identifica con l’eroina di cui porta il nome.

Un film privo di falsi moralismi, che sa far rabbrividire, riflettere e spingere ogni essere umano a raschiare sempre e comunque i meandri della propria essenza, cercando di far fruttare ciò che c’è di buono; la storia di una piccola grande donna che, servendosi unicamente della sua voce, è riuscita a scuotere le coscienze dormienti del mondo intero.

In Malala si concretizza la bellezza e la filosofia più profonda del Cogito ergo sum, la meraviglia di scandagliare la realtà in onore di un’idea giusta capace di non rintanarsi nel recinto dell’ego, bensì di farsi portavoce dei diritti dei più deboli. Come dice la stessa Premio Nobel Racconto la mia storia non perché è unica ma perché non lo è.

Malala è al cinema a partire dal 5 novembre, distribuito da 20th Century Fox.

Giudizio Cinematographe

Regia - 3.5
Fotografia - 3.2
Sonoro - 2.5
Emozione - 4.5

3.4

Voto Finale