Cannes 2018 – Manto: recensione del film di Nandita Das
Un film che tenta di allargare gli orizzonti cinematografici portando alla luce la storia del letterato, scrittore e poeta Manto e di tutta una fetta filosofica e storica della cultura indiana ignota ai più.
Presentato nella sezione Un certain regard dell’edizione 2018 del Festival di Cannes, Manto è il secondo lungometraggio firmato dalla bellissima attrice e regista indiana Nandita Das. Già componente di diverse giurie di questo festival in diverse occasioni, quest’anno porta sullo schermo la sua nuova creazione, film dalla gestazione particolarmente complicata, visto che in sei anni circa di lavorazione, la produzione ha visto molti alti e bassi, anche a causa di cambiamenti politici e culturali in atto proprio nel corso degli ultimi anni. Ambientato nell’India che assiste alla partenza dei colonialisti britannici, all’omicidio di Gandhi e all-‘inizio della dolora Partition, Manto racconta la storia del letterato, scrittore e poeta che dà nome alla pellicola e i suoi burrascosi rapporti con le istituzioni contemporanee, nonché le sue difficoltà nel gestire i suoi attaccamenti sia all’alcool che all’ideale insormontabile di libertà individuale.
Manto: un film che tenta di allargare gli orizzonti cinematografici
Il pezzo forte del film è senza dubbio l’interpretazione del protagonista Nawazuddin Siddiqui nei panni del poeta Manto: astro nascente della cinematografia indiana che da circa un decennio compare sul grande schermo in modo continuativo, regala performance mai deludenti, con uno sguardo magnetico e una capacità di modellarsi a dir poco rara nel panorama presente. Basti pensare alle interpretazioni in Gangs of Wasseypur, Monsoon Shootout, Raman Raghav 2.0 o The Lunchbox per ritrovare lo stesso sguardo che infiamma chi lo circonda sia nella dimensione diegetica che al di qua dello schermo. Circondato da altri attori di un certo calibro (Javed Akhtar, Rasika Dugal, Shashank Arora e Vijay Varma, tra gli altri), l’elemento più prettamente attoriale è quello più riuscito, che riesce in alcuni momenti a mettere in secondo piano degli aspetti molto meno riusciti del film, anche considerando la sua lunga gestazione.
Andando oltre il soggetto che porta in sé delle complicazioni dovute alle barriere culturali che persistono anche oggi, la preoccupazione della regista si concentra molto sul rendere giustizia al personaggio centrale, ma se da un lato riesce a far avvicinare il pubblico quanto meno al nome e alla portata letteraria di Manto, dall’altro lato si incaglia in alcuni momenti che appesantiscono non poco la fruizione del film.
Soprattutto a livello di sceneggiatura si denota un’eccessiva verbositá, una serie pressoché ininterrotta di dialoghi che non solo sono percepiti come lunghi, ma anche molto densi a livello di concetti culturali espressi. Verrebbe da pensare che la preoccupazione del rendere intellegibile la narrazione e la vita dello scrittore anche a neofiti completi della cultura indiana abbia messo a tacere una certa velleitá artistica a favore di una minuziosa ricostruzione storica. Anche perché, non dimentichiamolo, il contesto storico che fa da sfondo alla storia di Manto, e che ne influenza inevitabilmente le scelte di vita, risale a un momento molto delicato e particolare della storia indiana, che risulta quasi sconosciuto al pubblico europeo. Dovrebbe essere dunque premiato questo sforzo non da poco di allargare gli orizzonti anche cinematografici cercando di comporre un film quasi divulgativo. Ma proprio questa dimensione cade talvolta nell’apparire didascalico e pecca in un’abbondanza di dialoghi ridondanti, che spesso non sono nemmeno troppo funzionali alla progressione narrativa, in quanto ripetitivi o meramente descrittivi. Il fattore interpretativo, quindi, gioca un ruolo fondamentale nella possibilità di apprezzare il film: pur essendo un’opera dichiaratamente biografica, le performance e l’equilibrio tra le parti lo rendono non troppo distante da un racconto corale, aspetto che fa passare la storia da individuale a collettiva.