Minari: recensione del film con Steven Yeun
Dal 26 aprile in sala c'è Minari, un film di Lee Isaac Chung con Steven Yeun che ha vinto il Golden Globe come miglior film straniero
Il minari è un’erba aromatica tipica coreana, un prezzemolo piccante che dà intenso sapore alle ricette tradizionali. La particolarità di questa pianta, che dà il nome al film di Lee Isaac Chung, è che cresce ovunque, anche in zone poco avvezze alla coltivazione. È proprio intorno a questa erba aromatica, simbolo di resistenza e amore per le proprie radici culturali, che gira il racconto familiare dei Lee, una famiglia che insegue il suo sogno per una vita migliore nelle sterminate radure dell’Ozark. Una storia autobiografica, ambientata negli anni ’80 reganiani, in cui i delicati equilibri emotivi dei personaggi si scontrano con il desiderio di una vita migliore, la crescita personale e il necessario superamento dei propri limiti.
Minari: la trama
Jacob, Monica e i loro due figli si trasferiscono dalla California all’Arkansas. È David che ha preso questa decisione: vuole diventare agricoltore autonomo e coltivare ortaggi coreani da rivendere ai suoi conterranei immigrati negli USA. La casa in cui si trasferiscono i quattro membri della famiglia cade a pezzi e il terreno da coltivare non ha un impianto di irrigazione. In più, Jacob ha investito i suoi risparmi per abbandonare il sottopagato lavoro di sessatore di pulcini e coltivare il suo sogno, destando le preoccupazioni di sua moglie che teme che presto potrebbero aver bisogno di molto denaro per curare il più piccolo della famiglia, David a cui hanno diagnosticato un soffio al cuore. Dalla Corea arriva la nonna (Yoon Yeo-jeon), donna imprevedibile e singolare pronta ad aiutare la sua famiglia, ma lassa presenza stravolgerà i precari equilibri. I suoi modi bizzarri accenderanno la curiosità del nipotino David (Alan Kim) e accompagneranno la famiglia in un percorso di riscoperta dell’amore che li unisce.
Un racconto delicato che sa di coming of age
Il ritmo di Minari è posato, in tipico stile orientale, come anche la regia che con estremo lirismo alterna immagini mai troppo ravvicinate, scegliendo campi lunghi per mostrare le ridenti campagne dell’Ozark e dettagli di oggetti che descrivono la vita rurale. Le dinamiche tra i 5 componenti della famiglia Lee crescono scena dopo scena verso un climax che purtroppo non raggiunge altissime vette. Affondando le mani nella terra e nei sentimenti più profondi dei personaggi in campo, Lee Isaac Chung tocca tantissimi temi a lui cari: dall’integrazione della sua famiglia, ai sacrifici fatti per offrire un futuro roseo ai componenti della famiglia. Il tema della formazione poi è intrinseco a questa storia, non solo dal punto di vista dei bambini che sperimenteranno l’integrazione in un contesto rurale più chiuso rispetto alle città metropolitane della California, ma anche da quello degli adulti. In particolare Jacob e Monica dovranno mettere in discussione i propri punti di vista per ritrovare un feeling perso e un obiettivo di vita comune.
L’integrazione vista dagli occhi di fanciullo
Per forza di cose il film mette a confronto la tradizione del paese d’origine dei protagonisti e l’inseguimento di un desiderio che assomiglia molto al sogno americano. La diversità è uno degli elementi portanti in Minari. La differenza etnica, principalmente somatica, tra gli emigrati Lee e gli autoctoni del posto non prende pieghe drammatiche e non racconta un razzismo becero come ci si potrebbe aspettare, bensì grazie ad alcuni siparietti acuti questa tematica rappresenterà una caratteristica che suscita interesse e fierezza. Si dovrà ricredere David sulle sue convinzioni che Soonjia è una nonna che “puzza di coreano” e non sa cucinare i biscotti, cosa assolutamente non concepibile, come il pregiudizio della nonna coreana che crede che i bambini americani non vogliano condividere la loro camera da letto con nessuno. Il tema della diversità viene affrontato con estrema leggerezza e grande intelligenza, come nella scena in cui ad un rinfresco, i due bambini Lee si ritrovano faccia a faccia con i bambini del posto che per prima cosa gli chiedono perché hanno la faccia schiacciata o pronunciano parole a caso dall’assonanza orientale, per scoprire se beccano una vera parola coreana.
Insieme si supera tutto: la vera forza sta nei legami affettivi e nel sapere da dove si viene
È possibile raggiungere la felicità nonostante le difficoltà, così come il minari riesce a crescere e prosperare anche nelle situazioni più ostiche. Ci saranno sempre tempeste e smottamenti di terreno, emotivi e materiali, ma l’amore e i legami familiari possono essere così forti da permettere ad un amore sfiorito di prosperare ancora. Una metafora classica che il film riesce a trasmettere in due ore ben costruite che però faticano a far deflagrare il climax emotivo. Il film non vuole urlare, ma trasmettere emozioni e parlare di sentimenti universali attraverso piccoli gesti, in parole non dette, con uno stile che conferisce eleganza e poesia.
Il vero plus di Minari sta nel cast
Steven Yeun, dopo il ruolo di Glenn nella serie tv The Walking Dead che l’ha reso noto, riesce a convincere nella nuova veste di un padre pensieroso che cerca di tenere insieme la sua famiglia e il suo sogno americano. Yoon Yeo-jeon, la nonna Soonja che agli Oscar 2021 ha vinto il premio per la migliore attrice non protagonista, regala l’interpretazione di una anti-nonna divertente e tenace. Rivelazione del film il piccolo Alan Kim, dolcissimo bambino il cui sguardo scettico e curioso rapisce il cuore.
Minari è al cinema dal 26 aprile 2021, distribuito da Academy Two