Mistress America: recensione del film di Noah Baumbach
Mistress America è un film del 2015 diretto da Noah Baumbach. Presentato alla Festa del Cinema di Roma, fotografa con determinazione le insicurezze di Tracy Fishko (Lola Kirke)e Brooke Cardinas (Greta Gerwig) coinvolte da un legame etereo ed indissolubile.
Tracy ha vent’anni, è una matricola della Barnard, università con sede a New York. Inizialmente la grande mela non rappresenterà l’isola delle opportunità, poiché lei soffrirà l’emarginazione di un college che non sa ridestare i suoi studenti: lei, scrittrice in erba e furente studiosa dei classici, si appresta ad avere con i suoi simili un approccio singolarmente distaccato, ma leale. Una convivenza quanto mai disattesa, che volge verso il peggio quando verrà sistematicamente rifiutato il suo ingresso in un prestigioso club letterario, non riuscendo a scrivere racconti degni di nota. Così, spinta dalla madre e stanca del suo peregrinare in solitudine, deciderà di contattare Brooke, sua sorellastra in divenire che abita a New York: in divenire poiché sua madre è prossima a sposare il padre di Brooke.
La cosa verso la quale si viene rapiti, oppure che ci fa allontanare dalla visione dipende dai casi, è solo una: il flusso di coscienza che si interpone tra le due ragazze. Brooke è un essere bislacco e grottesco, Tracy accoglie quel vulcano come una benedizione, e in men che non si dica l’una trascina l’altra nel suo universo intervallato da feste, sogni imprudenti, esitazioni, sguardi, aforismi improbabili, pettegolezzi, impulsi, osservazioni ciniche, rivelazioni incisive senza mai limitarsi in nessun modo.
“Quanto parlate, ragazze”, scriveva Diego Cugia. Ed è proprio il caso di dirlo, se non si è affascinati dai discorsi sconnessi, controversi e comici si fa fatica ad entrare in empatia con le loro vite, con le nevrosi che attanagliano ognuna di loro.
Tracy è alla ricerca del soggetto perfetto, del racconto che le possa permettere di far parte del club letterario ed in qualche modo la sua ispirazione è Brooke, un individuo inebriante, perfetto da raccontare, da mostrare anche in chiave disfattista.
Brooke parallelamente sta aprendo con il suo fidanzato un ristorante che non si accontenti unicamente di servire cibo: sarà allo stesso tempo un bistrot, una galleria d’arte ma anche un luogo dove ci si taglia i capelli, un ritrovo, quasi un rifugio personale. E lei allo stesso modo non si accontenta di diventare solo un’imprenditrice, riflette in qualche modo lo stile puramente newyorchese di donna dalla forza dirompente, lavorando come istruttore di aerobica, facendo ripetizioni ai bambini, cantando per una band e saltuariamente dedicandosi alle decorazioni d’interni.
Mistress America è una pellicola senza sovrastrutture, che cerca di sfuggire dai vuoti dell’insensatezza che in qualche modo determina le vite di queste due donne, cresciute con la spensieratezza di chi è sia imprudente che sconclusionato.
La cosa che accomuna le due ragazze è un carattere velleitario ma non dispotico, riescono a misurarsi e a completarsi con naturalezza. Brooke incarna perfettamente le vesti di una donna incostante, incontenibile, sfaccendata, brusca e magnetica, che trabocca vitalità senza mai aver avuto il concreto senso del reale, nonostante i suoi opachi trent’anni. Ed ecco che l’identità di queste due giovani in qualche modo si mescolano, senza mai trovare una reale determinatezza, cercando continuamente un posto nel mondo. Brooke in un certo senso proietta il suo carattere su ciò chi la circonda, reinventa continuamente se stessa e Tracy è rapita fin da subito dalla sua frenesia, tanto da riporre in secondo piano la sua vita in virtù di un racconto da buttare giù senza remore.
Con Mistress America Noah Baumbach ricama una pellicola priva di sovrastrutture, conducendoci ai confini del disincanto
Tracy la deifica, è entusiasta del ristorante che andrà ad aprire, tant’è che anche quando i finanziatori verranno meno, la spingerà a proporre un finanziamento ad un suo epocale ex fidanzato che vive nel Connecticut. Ed è proprio qui che i toni ironici e surreali trovano l’apice: le due future sorelle, assieme ad un compagno di Tracy e alla sua fidanzata partiranno per questa fantomatica spedizione, con la speranza di ottenere un investimento da un ex fidanzato ormai sposato con una sua vecchia amica, definita ormai la sua nemesi, e di coinvolgere entrambi nella folle impresa di Brooke. Le scene che li vedono racchiusi in questa casa a scongiurare un finanziamento sono la rivelazione di come la pellicola riesca a riproporsi in toni irreali e comici allo stesso tempo, di come un gruppo di ragazzi in viaggio possano diventare una giuria di un concorso a premi, intervallati da gelosie, discorsi sconnessi, ai limiti del ridicolo che disgraziatamente tocca anche vette drammatiche.
Mistress America non tollera pause o flashback dirompenti, procede in unico senso e non sottende qualità o sensazioni retroattive, almeno non dal punto di vista narrativo. Questo stesso senso, che può fungere alle volte anche da espediente, viene ripreso anche nelle questioni affettive e nell’approccio esistenziale di Brooke che non permette divagazioni o riprese fugaci dal suo passato.
Brooke e Tracy sono alla ricerca di una identità sfumata, insicure e consapevoli riflettono l’una sull’altra le loro declinazioni. Sono le eroine dei nostri giorni che hanno saputo comunicare un disincanto ammirevole, quello di cui oggi avremmo tutti un po’ bisogno.