Mizrahim, Les Oublies De La Terre Promise: recensione
Un film su un lato nascosto tra le pieghe della storia: gli ebrei provenienti dal Nord Africa e dal Medio Oriente che si stabilirono nel nuovo Stato di Israele...
Mizrahim – Les Oublies de la Terre Promise è un film del 2022 presentato in anteprima alla Mostra del Cinema di Venezia come evento speciale alla 18^ edizione delle Giornate Degli Autori, e portato a Sguardi Altrove Festival nel 2023, prodotto da Marie Balducchi per Ex Nihilo, in coproduzione con Lama Films, Bonne Nouvelle, Studio Orlando. Montato da Pierre Dechamps, con la fotografia di Nathalie Durand, il film è stato realizzato con il supporto di CNC, Aide Aux Cinemas Du Monde, Institut Francais, Regione Ile-De-France, The CNC, New Fund for Cinema & Television, The Rabinovich Foundation for the Art.
Una terra con una ferita mai pacificata
Israele ha una società segnata profondamente, radicalmente da alcuni tabù. Il più forte, il più resistente, il più massivo, è la discriminazione sistematica che, dal loro arrivo nella “terra promessa”, subiscono tutti gli ebrei provenienti dai paesi arabi. Una ferita profonda, purulenta e mai rimarginata.
Nella Gerusalemme degli anni Settanta, nel quartiere di Musrara, sorse un movimento ispirato alle Pantere Nere d’oltreoceano, a rivendicare i diritti fondamentali per i Mizrahim, ebrei del Nord Africa.
Il dolore di tutti e di ognuno in Mizrahim, Les Oublies De La Terre Promise
Michale Boganim, la regista, miscela abilmente privato e pubblico, vicende strettamente personali e bisogno di espressione artistica come catarsi, percorrendo le strade della Storia per intraprendere un viaggio personale da offrire al pubblico per far incontrare e scontrare passato e presente: suo padre morto era uno dei membri del movimento dei Mizrahim, e lei usa questo dolore per mettersi in viaggio in un road movie lacerante e lacerato, inoltrandosi nel buio dell’anima di quelle periferie dimenticare di Israele mentre affronta criticamente il senso dell’esilio e della parola eredità.
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Per tutti questi motivi, la visione di Mizrahim predispone ad una struttura nobile, ad un sentimento importante, come il preludio di un’opera eticamente irreprensibile che ha la necessità di essere vista, compresa, metabolizzata, restituita.
Il problema però con il film della Boganim è che il contenuto non ha lo stesso spessore del contenitore, le stesse iperboli emotive, la stessa profondità di pensiero critico: perché è un’opera audiovisiva e non un semplice racconto o solo una potente parabola, è una costruzione artistica che deve essere svolta con altrettanto impegno e dedizione.
Poca forza e molto contenuto nel film
La drammaturgia di Mizrahim purtroppo risulta inevitabilmente povera, la forma non è mai convincente, specialmente in un panorama dove il cinema del reale, o documentario, assume di giorno in giorno forme sempre diverse e sempre più avvincenti e convincenti, declinandosi in maniera personale e autoriale, (ri)scrivendo la propria grammatica e la propria sintassi, e sempre più spesso provocando fantasmi di vita che assediano lo schermo e intridono la visione di sentimento ed etica.
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Per questo, per quanto si possa e probabilmente si debba essere grati alla Boganim di alzare il velo e mostrare una realtà in pratica sconosciuta (la sistematica emarginazione degli ebrei provenienti dai paesi dell’Africa Settentrionale, con conseguente segregazione e ghettizzazione), seguendo una linea invisibile che lentamente e inesorabilmente fa coincidere il sogno della terra promessa in un incubo di soprusi, realizzando una dinamica socio-politica da conoscere; tutto questo non basta a rendere Mizrahim una visione filmica necessaria, afflitta com’è in troppi punti da toni ora melodrammatici ora patetici, assumendo un tono emotivamente ricattatorio.
Pesa molto anche il fatto che il racconto non assuma mai toni di protesta, restando mollemente adagiato su una finalità divulgativa che però avrebbe dovuto essere accompagnata da modalità narrative più forti e aggressive.