Mokalik (Mechanic): recensione del film nigeriano Netflix
Ponmile ha 11 anni e, per punizione, deve passare un'intera giornata in una delle più importanti officine meccaniche di Lagos. Al termine del suo piccolo apprendistato dovrà scegliere: terminare gli studi o proseguire con il tirocinio lavorativo? Ecco la recensione del film Netflix Mokalik (Mechanic).
Forse non tutti sanno che, accanto a Hollywood e a Bollywood, una delle più importanti cinematografie nascenti (o meglio, una eterna promessa non ancora del tutto mantenuta) è Nollywood. Ovvero il cinema africano, ovvero – nello specifico – il cinema prodotto e distribuito in Nigeria. Una realtà lontana dai nostri occhi (europei, occidentali) e per certi versi lontana dal nostro gusto, ma che non per questo merita di essere ignorata. Non capita spesso che un film nigeriano veda il buio delle nostre sale, e in tal senso l’acquisto dei diritti di Mokalik (Mechanic) da parte di Netflix è un’operazione che merita attenzione.
Si discute spesso – e sovente a ragione – della bontà dei contenuti di Netflix, ma è anche interessante constatare come la piattaforma stia cercando di coprire capillarmente micro e macrocosmi filmici che altrimenti ci sarebbero preclusi. Mokalik, girato a Lagos e recitato in dialetto yorùbá, ci fa essenzialmente conoscere lo star system nollywoodiano, perché è abitato da un regista affermato (Kunle Afolayan) che si sta specializzando nell’approccio documentaristico, da un pugno di attori veterani come garanzia di qualità e da un astro musicale (Simi Ogunleye) all’esordio nel campo della recitazione.
Mokalik: un romanzo di formazione “meccanico”
Il film segue il percorso formativo di Ponmile, 11 anni, che una mattina viene spedito dal padre in un villaggio meccanico per iniziare il proprio apprendistato. È una sorta di punizione, di lezione: il ragazzo non vuole più studiare, e al termine della sua giornata in officina dovrà decidere se continuare con la scuola o se proseguire il suo tirocinio. Ponmile – e noi con lui – entra in un mondo parallelo, con le sue personalissime regole: nell’arco di 12 ore avrà modo di conoscere l’operato di meccanici, carrozzieri ed elettricisti, e di venire a conoscenza di una prospettiva diversa sulla vita e sui suoi meccanismi.
Semplice e diretto, ai limiti della banalità, Mokalik offre una narrazione piuttosto dispersiva e a tratti ingenua, non mancando tuttavia di sfiorare qua e là alcuni spigolosi sottotemi (uno dei marchi di fabbrica di Afolayan). La percezione della classe elitaria nigeriana verso il settore artigiano, ad esempio, quasi sempre bistrattato e incompreso; o il discorso sull’orgoglio africano e sui talenti “rubati” o snaturati (per uno dei personaggi la vera vincitrice dei Mondiali non è la Francia ma l’Africa, perché i suoi campioni – Mbappé, Dembelé, Pogba – vengono in realtà da Camerun, Senegal e Guinea). Degno di menzione infine anche il continuo confronto del piccolo protagonista con colleghi adulti analfabeti o semi-analfabeti, parentesi di critica culturale e sociale su un certo tipo di anacronistica arretratezza che affligge i Paesi africani.
Mokalik: mai giudicare dall’aspetto
Tuttavia, nonostante emergano qua e là spunti di denuncia e blanda contestazione, Mokalik non è attraversato da nessun reale contrasto narrativo. Tutto è lieve e in qualche modo educato, ammansito, come fosse una favola o un piccolo racconto morale in cui a contare, alla fine, è il messaggio della crescita e della maturazione del singolo, che può avvenire solo grazie al confronto con la collettività. Ponmile non deve essere giudicato dall’aspetto, e il pensiero risulta particolarmente nobile se lo si legge come metafora di un’industria che sgomita per farsi conoscere e riconoscere, proprio in virtù della propria diversità strutturale.
Ciononostante, la sensazione è che ci sia ancora un po’ di strada da fare: se parti tecniche quali l’immagine, la fotografia e il suono (il sound design è ancora un elemento problematico per quasi tutti i registi nigeriani) risultano eccellenti e nettamente superiori alla media, il problema principale resta la debolezza della sceneggiatura. La storia, scritta da Tunde Babalola, procede troppo di frequente al rallentatore, o si dilunga eccessivamente su alcuni aspetti di scarsissima rilevanza inceppando il ritmo generale della vicenda. Un elemento da rivedere e affinare, senza dubbio, anche se ampiamente controbilanciato dal tratteggio riuscitissimo dei caratteri, principali o di contorno che siano: con Ponmile, Mr. Ogidan, Simi, Erukutu e Kamoru è facilissimo entrare in sintonia ed empatizzare, e quasi dispiace sui titoli di coda doverli salutare.