Moo Ya – recensione del documentario di Filippo Ticozzi
Moo Ya è il documentario realizzato da Filippo Ticozzi in Uganda, in un villaggio vicino Gulu: al centro ci sono Anthony Opio e l'Africa.
Moo Ya. The Spirit of the River è il documentario girato in Uganda da Filippo Ticozzi che verrà presentato in questi giorni a Visioni fuori Raccordo, il festival romano sul documentario italiano e internazionale. Il film, realizzato nel 2015, è già stato presentato in altri festival nello scorso anno e lo stesso regista, in una delle interviste rilasciate in proposito, afferma che non si tratta propriamente di un documetario. Ci troviamo infatti a metà tra il documentarismo e la narrazione.
Anthony Opio è un uomo di 65 anni, cieco ormai da molto tempo. Trascorre le sue giornate nel suo villaggio, ascoltando la radio, suonando la chitarra, tenendo tra le braccia un neonato. Facciamo la conoscenza del personaggio vedendolo nella penombra del risveglio mentre, con voce sommessa, recita le sue preghiere mattutine. Passiamo poi a vederlo seduto sotto il suo albero che sembra essere anche il centro del villaggio. La condizione in cui conosciamo Opio è l’immobilità, una condizione che però, in maniera progressiva, cambia: il personaggio diventa sempre più mobile. Con l’aiuto di un bastone si sposta verso obiettivi sempre più lontani ma comunque abbastanza vicini, ma solo ben oltre la metà del documentario lo vediamo partire e affrontare un percorso realmente più lungo verso alcuni villaggi vicini.
Sono questi spostamenti, queste traiettorie come le chiama Filippo Ticozzi, che a mano a mano ci mettono davanti ai racconti e alle storie drammatiche di alcune persone: trattandosi di storie legate alle violenze dell’esercito e dei ribelli si potrebbe pensare che ci sia una qualche volontà di suscitare pena o solidarietà. Al contrario, lo scopo vuole essere quello di sbirciare dietro il silenzio che sembra racchiudere questo dolore, come in uno scrigno, portare un po’ di luce in questa penombra, ma non tanto per comprendere quanto per arrivare a porsi sempre nuove domande.
La cecità di Opio ci mette nella condizione di poter ascoltare: e infatti gran parte di Moo Ya è fatto di suoni, gli stessi suoni che guidano il protagonista attraverso le sue giornate permettendogli uno spazio di autonomia. Tony Opio riesce ad inglobare la sensibilità dello spettatore: pur non essendo ciechi, anche per noi che guardiamo il film i suoni della strada trafficata, delle poche voci e del vento si amplificano. Anche se in realtà stiamo guardando Opio muoversi sullo schermo, e come se ormai, una parte di noi si fosse trasferita in lui.
Ad affiancare il protagonista c’è lei, la natura africana, che qui non è quella selvaggia e grandiosa della savana. Al contrario, galline, alberi, capre e la terra secca e assolata sono i componenti di un’Africa più domestica e quotidiana ma pur sempre sbalorditiva. Gli ampi spazi fanno respirare lo schermo e sembrano mettere la condizione umana nella giusta prospettiva.
Un uomo senza vista si trasforma nei nostri occhi e ci mette davanti ad un volto inedito di questo continente facendoci conoscere volti, luoghi, storie: mettendosi ogni volta sempre di più in cammino, Opio sfida i suoi limiti, ci fa da guida in un territorio e in un’umanità che a volte fatichiamo a comprendere. Il suo predominante silenzio diventa il nostro silenzio, ci convince ad ascoltare e a pensare. La quotidianità dei gesti che vediamo in questo documentario riescono a rendere il posto, gli stati d’animo e le persone più familiari di quanto non lo siano mai stati, Moo Ya getta un po’ di luce su qualcosa di mai veramente compreso o sul quale non ci siamo interrogati abbastanza.