Mother Fortress: recensione del film di Maria Luisa Forenza
Girato in Siria fra il 2014 e il 2017, il documentario della Forenza ci porta nel mezzo di uno dei conflitti più violenti degli ultimi decenni attraverso lo sguardo delle suore e dei monaci di un monastero stretto nella morsa dell’ISIS.
L’attenzione che la Settima Arte sta mostrando nei confronti del conflitto siriano è senza dubbio molto alta, del resto si tratta di uno dei più violenti tra quelli consumati negli ultimi decenni e al quale non si riesce ancora a scrivere la parola fine. Il cinema del reale, in tal senso, ha visto più di un’opera occuparsi dell’argomento, portando sul grande schermo una serie di documentari che hanno lasciato il segno e acceso ulteriormente i riflettori sulla gravità della situazione. Tra questi figurano i due candidati all’Oscar Alla mia piccola Sama e The Cave: il primo racconta la storia strabiliante di una regista siriana di 26 anni, Waad al-Kateab, che ha filmato la sua vita in Aleppo, da ribelle, durante i 5 anni di rivolta, mentre il secondo di Feras Fayyad ci trascina nel quotidiano delle dottoresse siriane durante la guerra nel loro paese. Si tratta di due film che offrono altrettanti punti di vista sulla guerra, mostrando gli eventi attraverso delle esperienze immersive vissute all’interno dell’occhio del ciclone: da una parte si assiste alla prospettiva di una videomaker che racconta e documenta in prima persona l’odissea bellica, dall’altra la macchina da presa pedina senza sosta il lavoro del personale medico in un ospedale sotterraneo consistente in una rete di tunnel segreti che si dirama sotto Ghouta, nei pressi di Damasco.
Mother Fortress racconta i pericoli vissuti ogni giorno dai religiosi in Siria
Ai suddetti punti di vista se ne aggiunge ora un altro, quello che porta la firma di Maria Luisa Forenza che nel suo Mother Fortress racconta la pericolosità quotidiana delle vite di religiosi in Siria che lottano per salvare la dignità e la sopravvivenza di esseri umani innocenti travolti dalla inarrestabile guerra. Girata fra il 2014 e il 2017, la pellicola, Menzione Speciale al Tertio Millennio Film Fest, penetra in un antico monastero cristiano stretto nella morsa di due catene montuose diventate avamposti dell’ISIS per narrare di un’esperienza, vissuta in prima linea dall’autrice-regista (e produttrice) tesa a testimoniare non gli aspetti più drammatici del conflitto, quanto gli effetti da esso provocati all’interno di una comunità in cui le differenze religiose lasciano il posto all’aiuto umanitario mosso da uno spirito di condivisione e sorriso anche in situazioni estreme.
Mother Fortress: l’esplorazione della condizione umana in tempo di guerra attraverso un’esperienza materiale e spirituale
La guerra improvvisa che ha devastato la nazione induce Madre Agnes, assieme a monache e monaci di diversi continenti (Libano, Francia, Belgio, Portogallo, Cile, Venezuela, Colorado-USA) ad affrontarne gli effetti sul suo monastero situato ai piedi di montagne dove Al-Qaeda e ISIS insidiosamente si nascondono. Il film racconta proprio la rocambolesca esperienza di religiosi disposti a mettere a rischio la propria vita pur di salvare la dignità e la sopravvivenza di esseri umani innocenti (cristiani e sunniti) travolti dalla immane tragedia. Con un convoglio di ambulanze e camion che attraversano strade controllate da cecchini dell’ISIS, Madre Agnes persegue la missione di fornire aiuti umanitari (cibo, vestiti, medicine) ai siriani impossibilitati ad espatriare. Il film-documentario esplora la condizione umana in tempo di guerra: come per la ricerca di un Sacro Graal il viaggio diventa un’esperienza materiale e spirituale, una ‘storia d’amore’ la cui destinazione finale sarà Roma.
Mother Fortress: il grande valore documentale dell’opera di Maria Luisa Forenza
L’approccio scelto dalla cineasta abbraccia dunque i modus operandi degli autori di Alla mia piccola Sama e The Cave, ma a questi aggiunge un’efficace transizione tra il dentro e il fuori dal monastero. Il risultato è un In & Out che scandaglia (andando anche nel sottosuolo diventato rifugio anti raid e centro di accoglienza per profughi e perseguitati) l’habitat da prima interamente dall’interno con un rigore formale e un rispetto nei confronti dei cicli quotidiani che animano e scandiscono l’esistenza di quei luoghi che riportano alla mente tanto Il grande silenzio di Philip Gröning quanto Per sempre di Alina Marazzi, per poi oltrepassarne la soglia per andare ad affrontare direttamente l’inferno al seguito di alcune suore a bordo di convogli umanitari tra città fantasma rase al suolo e orde di disperati in cerca di approvvigionamenti e medicine. Si passa così in un battito di ciglia da un soundtrack fatto di meditazioni, preghiere e liturgie (cristiane e musulmane), a quello atroce di urla, sirene e detonazioni. Ne scaturisce un assolo audiovisivo che mescola le immagini raccolte tra gli spazi “rassicuranti” del monastero agli orrori dell’esterno, trovando nelle testimonianze – in primis delle suore – un controcampo dall’indubbio valore documentale ed emozionale.