Venezia 78 – Mother Lode: recensione del film di Matteo Tortone

A cavallo tra finzione e realismo, la pellicola esplora le dure condizioni lavorative dei minatori in Perù, inserendole in un contesto mitologico e leggendario, con la realtà che si mischia alla fantasia.

Mother Lode è un termine inglese, probabile traslitterazione del vocabolo messicano veta madre, che riconduce ai filoni d’oro o argento o in generale a giacimenti ove è possibile racimolare le pietre preziose appena citate. Il sostantivo, però, ha una doppia valenza e oltre alla traduzione, per così dire scientifica, può anche fare riferimento, in modo colloquiale, all’origine, fittizia o reale, di qualcosa di valore. Ecco che quindi questa interpretazione ricalca, a livello concettuale, una serie di miti della ricerca della ricchezza, da El Dorado, fino mitica Età dell’Oro di matrice esiodea. Proprio partendo da tale accezione, il film Mother Lode di Matteo Tortone (Swahili Tales, White Men), ci racconta la vera storia dei minatori peruviani, calando il tutto in una dimensione leggendaria.

La realizzazione, in concorso alla Settimana Internazionale della Critica nell’ambito della Biennale di Venezia 2021, a livello formale è a tutti gli effetti un film di finzione realistico, anche se il regista e sceneggiatore italiano ha voluto condire il tutto con un filtro mitologico suggerito, mai preponderante nella narrazione e regia. Il lungometraggio, una co-produzione tra C-Side Productions e Malfé Film, sarà presentato alla Mostra del Cinema a partire da domenica 5 settembre.

Mother Lode: la ciclicità si alterna in un eterno ritorno

Mother LodeIl protagonista di Mother Lode è il giovane Jorge, che lascia il suo lavoro da tassista improvvisato a Lima per intraprendere quello da minatore fuori dalla città, per mantenere economicamente sua moglie e la loro piccola figlia. Per il ragazzo inizia un viaggio avventuroso, pieno di pericoli, con un rischio di morire piuttosto alto, ma nel suo caso, il sacrifico vale qualsiasi ostacolo possibile sulla strada. Miti e leggende si intersecano alla storia reale, in un racconto corale dal sapore ancestrale e filosofico.

Proprio partendo da questo concetto, in un’intervista l’autore Matteo Tortone ha raccontato che l’idea del film è partita in un villaggio di minatori d’oro, nel nord della Tanzania e studiando La Rinconada, miniera delle ande peruviane, ha capito che era il luogo perfetto per rimanere in bilico tra realismo e immaginazione. A proposito di quest’ultima, parlando con l’attore protagonista (che realmente ha fatto il minatore in maniera saltuaria), il film-maker si è lasciato catturare da una sua affermazione: “l’oro appartiene al diavolo”, che è un po’ il mantra dell’intero percorso surreale e fantastico che segue l’opera passo dopo passo, mentre alterna momenti di vita quotidiana che invece evocano la ciclicità e la ripetitività delle azioni del personaggio principale.

Se infatti si seguono i movimenti di Jorge, specialmente quando arriva nella miniera, ci si accorge che non vi è una evoluzione nella sua avventura lavorativa, ma semplicemente un incessante reiterazione dei suoi gesti, spostamenti e attività vere e proprie. La voce narrante guida interamente questo schema, rompendolo pedissequamente raccontando aneddoti mitici e folkloristici sulla figura del diavolo e sulla sua presenza all’interno della miniera, una sorta di monito secolare che però motiva i minatori, perché capace di donare ricchezza, anche se a carissimo prezzo.

In tutto questo, la regia, espressione diretta del creatore del film, funge da testimonianza assoluta dell’intera vicenda, riprendendo ogni singolo attimo dei personaggi e le loro avventure giornaliere, adottando un linguaggio ben preciso: un filtro in bianco e nero che, se in alcuni frangenti è efficacissimo per giocare sulle ombre e le luci delle desolate location del lungometraggio, al tempo stesso sembra inquadrare tutto Mother Lode in una dimensione misterica e atemporale, in cui lo scorrere del tempo sembra accessorio.

Mother Lode: tra troppa dilatazione narrativa e un contenuto farraginoso

Mother LodeSe quindi, dal punto di vista prettamente registico e fotografico, il film riesce ad esprimere perfettamente il suo intento fin dall’inizio, passando al lato narrativo, la sceneggiatura incontra degli scogli non indifferenti, adottando una soluzione ben precisa, che però non si incastra bene con il resto. La scelta, in fase di stesura del copione, è stata quella di dilatare eccessivamente i tempi, inserendo pochi dialoghi e lasciando scorrere perlopiù la storia a livello visivo ed estetico.

Quello che accade, purtroppo, è che non si crea un legame forte tra regia e scrittura e quest’ultima è talmente lenta da alienare lo spettatore. Nonostante l’idea sia ampiamente voluta, il risultato non è pienamente soddisfacente, anche perché ne risente anche il contenuto proposto ovvero tutto il comparto mitico-leggendario presente all’interno della realizzazione. Tutte le riflessioni surreali e fantastiche, infatti, si perdono e solamente negli ultimi minuti della pellicola riescono perfettamente ad inquadrare un rapporto perfetto tra immagine e narrazione.

Le varie figure, frutto dell’interpretazione degli attori del cast, che vediamo all’interno di Mother Lode sono cariche di significato, in quanto si avverte ogni singola goccia della loro umanità, espressa tramite il lavoro, i sacrifici per la famiglia e i racconti mitici che si tramandano a vicenda, evocando una società e una cultura che sembra non appartenere più a questo pianeta.

Il film riesce quindi ad essere un contenitore peculiare di folklore, realismo, magia e mistero, ma il tutto è talmente sussurrato e suggerito con delicatezza che i vari racconti fantastici vanno un pochino a perdere di mordente, lasciando spazio ampiamente alla narrazione tradizionale documentaristica, ben gestita soprattutto con la cinepresa, che regala delle inquadrature incredibili che riescono a comunicare brillantemente la desolazione dei luoghi presentati all’interno del lungometraggio.

Mother Lode è un curioso accostamento tra il classico film intimista e un approccio, per così dire, folkloristico e fantasy della materia originale. Registicamente parlando, vi è un’attenzione particolare al contesto sia geografico che temporale della vicenda, in grado di evocare miti del passato inserendoli nella ciclica e ripetitiva quotidianità dei protagonisti della storia, i minatori. Di contro la narrazione non riesce sempre a seguire ottimamente la regia, scontrandosi di fatto con l’eccessiva dilatazione dei dialoghi e dei monologhi presenti che inevitabilmente intaccano anche il contenuto. Una realizzazione comunque peculiare e dignitosa, di stampo sperimentale e progressivo.

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Regia - 3.5
Sceneggiatura - 2.5
Fotografia - 3.5
Recitazione - 3
Sonoro - 3
Emozione - 3.5

3.2