Mountain: recensione del film di Yaelle Kayam
Nel 1964 Andy Warhol presentò uno dei suoi più celebri lungometraggi concettuali, Empire, un film della durata di 8 ore in cui la totale immobilità ed assenza di una vera narrazione ne complicava la comprensione soprattutto perché nella pellicola il tempo è abolito, si consuma con il piano fisso e la narrazione è sospesa. Mountain per staticità e decostruzione lo ricorda per certi versi, poiché esso inchioda ad una parete immutabile i flagelli interiori di una donna di fede ebraica, che rivive quotidianamente e perentoriamente le sue routine domestiche.
Mountain è un lungometraggio di Yaelle Kayam, brillante regista israeliana, presentato al Festival di Venezia 2015 nella sezione Orizzonti.
La regista indaga sulla vita di una donna,Tzvia (Shani Klein), che vive in un cimitero, al Monte degli Ulivi, situato ad est di Gerusalemme, assieme al marito Reuven (Avshalom Pollak) e i quattro figli. Tzvia non ha aspirazioni, non prevede o si augura una vita diversa o migliore da quella che Dio le ha donato, non può farlo, non potrebbe pensare che ci sia una possibilità al di fuori di Gerusalemme, che la sua famiglia possa avere libertà di preghiera, di pensiero, soprattutto in città paradosso come Tel Aviv.
Ma un nastro che gira all’infinito prima o poi si consuma, salta per autocombustione o per mano di un agente esterno. Ed è proprio come risposta ad una domanda molto più grande della sua esistenza che comincerà ad osare, lentamente, ad intercedere in quell’inerzia che soccombe la sua vita, riuscirà a non demordere e a far sì che anche il desiderio più indicibile venga ascoltato e non represso. Questo film c’è da dire mantiene una idilliaca purezza che ha del sorprendente, poiché il pubblico può solo immaginare cosa lei possa provare, può solo immaginare cosa voglia, perché non crolli, motivo per il quale verso le battute finale azzarderà il tutto per tutto: cosicché nella testa si innesti un nuovo modo di giudicare le sue azioni, la sua paralisi, quel suo respirare davvero solo attraverso il fumo di una sigaretta, nascondersi dietro le pentole, perdersi dentro le pagine della sua poetessa Zelda Schneersohn Mishkovsky, nascondersi dalla sua infelicità che si ritrova ad essere l’unica declinazione del suo tempo. Quel tempo che passa e che si annulla la mette spalle al muro per comprendere, con quella riservatezza che la contraddistingue, e trovare il coraggio di ammettere i suoi limiti, come madre, come donna e come moglie e di non fuggire da essi ma osannarli e infrangerli nello stesso momento con un unico imponderabile gesto.
Questo film è realizzato in modo che i suoi piani sequenza, quasi sempre fissi e molto lenti, rendano la fruibilità della narrazione difficile e inconcludente; possiede una interezza minata nello scheletro, le azioni sceniche sono distrutte da una anti-vettorialità della drammatizzazione, in cui tempo e storia vagano come grandezze lontane e sconosciute. La sua bellezza è proprio nelle piccole scosse, negli aneliti, nei sussulti e nelle piccole commessure che fioriscono in congiunzione tra la sacralità della sua tradizione e la riappropriazione di una erotomania sordida, sincera e inviolata.
Tzvia non è una donna diseducata o digiuna dal sapere: assiste alla lettura del Tanàkh, cosa che avviene sempre in presenza del marito e dei figli ma a cui non partecipa direttamente, è curiosa, taciturna, legge le poesie di Zelda come se fossero le sue preghiere quotidiane, in modo costante e le recita sottraendosi al flusso di coscienza visivo che la regista israeliana è tanto abile nel fare.
Ha negli occhi la saggezza di una cultura come quella ebraica che non prevede adduzioni o punti di fuga, e una bocca colma di rimpianti, ferite, costrizioni e parole incapaci di evadere dal silenzio. Ella comprende quanto la sua vita sia espugnata da un marito che forgia la sua solitudine, che annulla i suoi languori, che non può darle nulla di migliore, legata a doppio nodo al ricordo e all’offesa di una esistenza vuota. Un essere insaziabile e impassibile solcato da vecchie cicatrici che non riesce più a distinguere, come chi non sa distinguere più cosa sia il sesso e cosa sia l’amore, cosa sia la vita e cosa sia la morte, cosa è lontano e cosa lo rende vicino, cosa sia la fusione di due corpi che si attraggono e di due corpi che si oltraggiano. Questa pellicola è la finestra che non possiede quando ha voglia di fuggire, o quando desidera aprirsi a dismisura, o quando desidera piangere e basta, o guardare il soffitto che divide l’oblio dalle sue vertigini, in cui anche la notte più nera per lei non sarà mai nera abbastanza.