Mufasa – Il Re Leone: recensione del film di Barry Jenkins
Mufasa: Il Re Leone, regia di Barry Jenkins, arriva nelle sale italiane il 19 dicembre 2024 per raccontarci l'ascesa al trono e la sorprendente infanzia di Mufasa.
Il prequel è anche un sequel. Si comincia così, con una rima discutibile, a parlare della natura ibrida e del tempo sospeso (a cavallo tra passato e presente) di Mufasa: Il Re Leone, il film diretto da Barry Jenkins in arrivo nelle sale italiane il 19 dicembre 2024 per The Walt Disney Company Italia. Il titolo tradisce – ovviamente è una scelta – il suo segreto più prezioso: raccontarci, a trent’anni esatti dal leggendario originale (Il Re Leone esce nei cinema di tutto il mondo a Natale del 1994) l’infanzia e la prima età adulta del più iconico e amato sovrano delle terre del branco. Un Mufasa inedito, ma sarebbe stato difficile convincere uno dei più importanti, influenti e sofisticati autori del cinema americano contemporaneo se a) non ci fosse stato qualcosa di nuovo da dire sul personaggio e b) alla fine, il risultato non fosse stato Barry Jenkins al 100% (o giù di lì). Mufasa: Il Re Leone è un omaggio alla voce e all’arte del grandissimo James Earl Jones, doppiatore inglese di Mufasa, scomparso recentemente. Va da sé che, qui da noi, si fa la stessa cosa, nel ricordo di Vittorio Gassman.
Mufasa – Il Re Leone: re si nasce, ma soprattutto si diventa
C’era una volta Mufasa, il giovane re delle terre del branco, sangue blu e destino segnato. In fondo, ce lo immaginavamo tutti così l’antefatto, anche Barry Jenkins. Il Re Leone metteva in scena un Mufasa – non a caso doppiato dai decani Vittorio Gassman e James Earl Jones – già perfettamente costruito nel carisma, nel prestigio e nella silhouette, senza scendere nei dettagli su ascesa al trono e pedigree reale. Probabile che sia stato proprio il vuoto della storia a vincere le (comprensibili) resistenze dell’autore americano, desideroso di misurarsi con le promesse e le possibilità – di budget, di pubblico – offerte dal cinema commerciale, ma anche spaventato dai vincoli creativi, dalle censure e dalle inibizioni. Mufasa: Il Re Leone ha un bell’asso nella manica e Barry Jenkins lo usa per costruire un discorso coerente con il suo senso del cinema e con l’immaginario Disney, debitore delle influenze del passato ma libero di cercarsi una sua strada. Mufasa (Aaron Pierre, da noi la voce è di Luca Marinelli) non è un re, non è nato per fare il re e forse è quanto di più lontano ci sia, all’inizio, da un re.
Cresce nella savana, c’è una terribile siccità e sogna le promesse del Milele, un paradiso di opportunità e promesse – paradiso terreno, però – che aspetta solo di essere trovato. Una terribile calamità naturale separa Mufasa dalla sua famiglia; scampato alla morte per un pelo, viene salvato da una stirpe reale di leoni. Lega con il piccolo Taka, l’erede designato al trono (Kelvin Harrison Jr., da noi Alberto Boubakar Malanchino) che diventa il fratello che non ha mai avuto. L’identità di Taka, come e perché cambierà il suo nome, l’inevitabile scivolamento del personaggio verso una prospettiva di malanimo e rancore sono il più importante meccanismo di suspense e il secondo grande segreto di Mufasa: Il Re Leone. Nel rispetto delle coordinate del moderno cinema commerciale siamo di fronte alla perfetta origin story: come e quando un eroe e un villain, entrambi amati dal pubblico, sono diventati quello che sono.
Mufasa, difeso da Taka ma ostracizzato dalla famiglia del fratellastro, lascia la casa adottiva in compagnia di quest’ultimo per un viaggio di formazione, la ricerca del Milele, che contribuirà a definirne la personalità e a scriverne, nel bene e nel male, il destino. Insieme ai due fratelli c’è la leonessa Sarabi (Tiffany Boone, da noi Elodie), l’uccello Zazu e la scimmia Rafiki. L’immaginario della storia è lo stesso dell’originale del 1994 e dei successivi capitoli, compreso il film diretto da Jon Favreau nel 2019. Il tentativo di Barry Jenkins con Mufasa: Il Re Leone è un compromesso rischioso ma gratificante: sincronizzare il film al battito del suo cinema, valorizzandone le potenzialità ma senza tradire la formula Disney. Coerentemente con il gusto del suo autore, ci troviamo di fronte a un racconto di formazione. Si è parlato, infatti, di un sequel/prequel. In che senso?
Spettacolo e intelligenza, il film cerca un coraggioso compromesso
Il presente e il passato di Mufasa: Il Re Leone sono una cosa sola. Il viaggio di Mufasa rivive nelle parole e dei ricordi del vecchio Rafiki. Racconta alla piccola Kiara, figlia di Simba e Nala, per consolarla della lontananza (momentanea, abbondantemente giustificata) dei genitori, una storia che la tocca da vicino e che può insegnarle qualcosa. A far compagnia a Kiara e Rafiki ci sono, ovviamente, Timon (Billy Eichner e Edoardo Leo) e Pumbaa (Seth Rogen e Stefano Fresi). Loro servono a puntellare la storia nei suoi accenti più drammatici – l’incontro del giovane Mufasa con il cattivissimo Kiros, in originale Mads Mikkelsen – con parentesi di sdrammatizzante leggerezza, nel segno di un equilibrio tra lacrime e risate che era il segreto del film del 1994. Il Re Leone giocava sul filo sottile di un’oscillazione di lacrime, risate e dramma per proporre un intrattenimento epico e spettacolare, emotivamente esplosivo e molto realistico. Il film del 2024 cerca di seguirne le orme.
Il carattere ambiguo di Mufasa: Il Re Leone – il sequel che racconta una storia e strada facendo diventa un prequel – dipende dal fatto che non c’è un altro modo, per la Disney, di tenere nel film personaggi amatissimi come Timon, Pumbaa e Simba e non disperderne il potenziale commerciale. La scelta ci aiuta a capire forza e limiti dell’operazione. Mufasa: Il Re Leone, nello spirito più che nel look, è un film di Barry Jenkins. Più spettacolare, più forte nel budget e nel target di pubblico – cinema per famiglie, un bacino sterminato – rispetto ai titoli più famosi e celebrati, da Se la strada potesse parlare a Moonlight, ma coerente con l’autore e la sua poetica. Un racconto di formazione, intelligente e molto elegante, animato da un forte bisogno di libertà e di emancipazione. Politico, a modo suo, ma mai partigiano o sterilmente polemico. L’invito è a riscoprire il senso di parole come nobiltà e regalità. La vera nobiltà, la vera regalità.
Non è il sangue che fa il vero re, piuttosto l’integrità dell’anima e la capacità di solidarizzare con gli altri. Il Mufasa che incontriamo all’inizio è un emarginato, un fuoricasta, anche perché i suoi connotati non rispettano il gusto della maggioranza, e questo è il gancio che serve a Barry Jenkins per veicolare, nella cornice del “sanificato” cinema commerciale americano, la sua personale politica della rappresentazione. Alla fine della storia, Mufasa è un re che non dimentica le sue origini ma le valorizza, rispettando la diversità degli altri. Barry Jenkins usa Mufasa: Il Re Leone per saggiare la flessibilità del cinema commerciale, puntando doppio: alzare l’asticella dell’ambizione senza smarrirne l’appeal, e amalgamare temi e spettacolo. Ci riesce, a conti fatti. I problemi del film hanno molto a che fare con la formula Disney e poco con la forza espressiva e lo sguardo del suo autore.
Mufasa – Il Re Leone: valutazione e conclusione
L’animazione fotorealistica in CGI di Mufasa: Il Re Leone non può, in nessun modo, eguagliare la maestosità, la potenza espressiva e il calore dell’originale del 1994. Quello che può fare, e lo fa bene, è proseguire nella direzione – fluidità dei movimenti e tensione espressiva – del remake del 2019. Dove il film diretto da Barry Jenkins fatica a stare al passo del capostipite è nel mix di atmosfere e suggestioni. Mufasa: Il Re Leone è spettacolo e una giusta profondità. L’immaginario e i personaggi, per quanto molto amati, portano il peso di trent’anni di vita sulle spalle e, nonostante l’intelligente rilettura di Mufasa, non esprimono più la stessa carica e la stessa freschezza. Vale anche per le musiche di Lin-Manuel Miranda; coraggioso, da parte sua, tenersi lontano dalle sonorità e da uno sterile citazionismo del lavoro di Tim Rice, Elton John e Hans Zimmer. La nuova soundtrack, però, non tiene testa al vecchio e non crea il nuovo.