My Happy Family (Chemi Bednieri Ojakhi): recensione del film Netflix
My Happy Family si dimostra un film sorprendentemente profondo e anticonformista
My Happy Family (Chemi Bednieri Ojakhi il titolo originale) è un film del 2017 di Nana Ekvtimishvili e Simon Gross, con protagonisti Ia Shugliashvili, Merab Ninidze e Berta Khapava. Dopo la presentazione al Sundance Film Festival e la partecipazione a numerose importanti manifestazioni del panorama cinematografico internazionale, il film è stato reso disponibile da Netflix l’1 dicembre per tutti gli abbonati al servizio.
L’insegnante georgiana Manana (Ia Shugliashvili) vive una vita grigia e monotona con il suo ampio nucleo familiare, composto dalla madre Lamara (Berta Khapava), il marito Soso (Merab Ninidze) e i figli Lasha (Giorgi Tabidze) e Nino (Tsisia Qumsishvili). Dopo una triste e forzata festa di compleanno organizzata per lei, la donna sorprende il marito e il resto della famiglia annunciando di volere andare a vivere da sola, senza fornire alcun dettaglio sulle motivazioni del suo gesto. Manana comincia così una lunga lotta con i rigidi dettami morali della famiglia e della società georgiana, dando vita parallelamente a un percorso di crescita interiore e di riscoperta della propria indipendenza.
My Happy Family: un dramma familiare intriso di forte critica sociale
Fin dai primi minuti, My Happy Family (titolo ovviamente ironico) sorprende per la sensibilità e il tatto con cui viene messa in scena un dramma familiare intriso di forte critica sociale, che non lesina nella costruzione e nell’approfondimento dello struggente personaggio di Manana, simbolo delle difficoltà e dell’ipocrisia che, nonostante il progresso e le battaglie civili, molte donne continuano a subire in ampie porzioni di mondo. Con una performance davvero coinvolgente ed efficace, Ia Shugliashvili dà corpo e vita a un ritratto di una donna fragile ma al tempo stesso coraggiosa, devota alla propria famiglia ma contemporaneamente desiderosa di libertà e autonomia. Una pentola a pressione sempre sul punto di esplodere, sollecitata da un ambiente familiare accogliente e rassicurante, ma anche estremamente limitante per la sua indipendenza.
La telecamera di Nana Ekvtimishvili e Simon Gross accompagna Manana e i suoi familiari con passo discreto e un taglio quasi documentaristico, evitando sia un’eccessiva enfasi melodrammatica sia razionalizzazioni forzate e fuori luogo, lasciando che a emergere siano la tormentata personalità della protagonista e le differenti reazioni dei suoi familiari alla sua sorprendente decisione, esemplificativi dei diversi modi di reprimere e limitare la libertà individuale femminile. Lo spettatore viene così coinvolto emotivamente nel cammino interiore di Manana, che, pur senza mai distaccarsi completamente dai familiari e dalle loro continue pressioni per il suo ritorno a casa, comincia lentamente ad assaporare il gusto delle cose più semplici, come la spesa fatta in totale autonomia o la riscoperta della musica o di una rilassante lettura.
My Happy Family: il deprimente quadro di una società maschilista e retrograda
My Happy Family procede con un passo lento e potenzialmente indigesto, ma fondamentale per sviscerare e intrecciare le varie sfumature che compongono l’esistenza di Manana. A fare capolino fra il caos familiare della donna e la pacifica solitudine della sua nuova esistenza sono così scene in apparenza slegate dal contesto come gli incisivi e profondi dialoghi con le sue bigotte amiche e con una sua giovane allieva, afflitta da dubbi e difficoltà sovrapponibili a quelli vissuti da Manana. Dettagli, spunti e suggestioni che contribuiscono a comporre il deprimente quadro di una società maschilista e retrograda, in cui la donna viene privata non solo di diritti e opportunità, ma anche della propria privacy e di tante piccole gioie quotidiane, sacrificate sull’altare di un sistema che riduce l’universo femminile a un mero componente di un ingranaggio sociale.
Un racconto e una tematica particolarmente inclini alla ridondanza e alla monotonia riescono invece a mantenere sempre alto il livello di coinvolgimento e attenzione dello spettatore, grazie non solo alle ottime prove degli interpreti, tutti abili a delineare le diverse sfaccettature dei rispettivi personaggi, ma anche all’ausilio di un eccellente reparto tecnico, fra cui meritano sicuramente una menzione il direttore della fotografia rumeno Tudor Vladimir Panduru (Un padre, una figlia), che fonde sapientemente le immagini con il mutevole stato d’animo della protagonista, e il montatore tedesco Stefan Stabenow, sempre efficace nella gestione degli stacchi e del ritmo narrativo. Il tutto è completato dall’egregio lavoro dei due registi, che riescono a rendere ogni dialogo funzionale alla storia e ogni singola sequenza un tassello del complicato puzzle del tormento esistenziale di Manana.
My Happy Family: un film sorprendentemente profondo e anticonformista
Non sorprende che in una storia così corale e ricca di sfumature alcuni personaggi secondari e certe sottotrame non funzionino alla perfezione, ma My Happy Family riesce a dimostrare sempre e comunque una propria inossidabile coerenza interna, che non viene meno né nei frequenti cambi di registro né in una parte finale solo apparentemente inconcludente, ma in realtà esaustiva nel fare comprendere pienamente l’impossibilità di cancellare completamente il proprio passato e di rompere completamente le regole sociali, pur fortificati da un salutare e ostinatamente cercato cambiamento interiore.
My Happy Family è una pellicola sorprendentemente profonda e anticonformista, che procede per sottrazione e rifugge la drammatizzazione di una storia di per sé cupa e sconfortante, mettendo in risalto i contrasti, le emozioni e l’avvilente ironia di alcune situazioni e gestendo al meglio le rivelazioni del racconto. La conferma dopo In Bloom di due registi di grande talento visivo e narrativo, che ci aspettiamo di vedere presto protagonisti nei più importanti festival europei.