Biografilm 2022 – Myanmar Diaries: recensione

Myanmar Diaries è un film politico in cui i registi usano ogni device a disposizione per narrare storie di crudeltà e coraggio. Un atto di ribellione generato dal basso e che si spera possa contribuire a modificare una realtà atroce.

Il film collettivo del Myanmar Film Collective, Myanmar Diaries, in concorso al Biografilm Festival 2022, racconta sia gli orrori compiuti dalla giunta militare, sia i sentimenti e le aspirazioni di chi, la dittatura, la sta combattendo anche con le armi.

Dal 1962 la Birmania (Myanmar) ha vissuto per decenni sotto una crudele dittatura militare. Finalmente nel 2015, dopo anni di lotte, il popolo birmano era riuscito a ottenere delle libere elezioni e la democrazia. Nel febbraio 2021 un nuovo colpo di stato, attuato dall’esercito, ha sprofondato nuovamente i cittadini birmani nell’incubo della dittatura.

Attraverso un montaggio studiato e intelligente che lega dieci corti di finzione a testimonianze reportagistiche, professionali e amatoriali, questo film politico, girato politicamente, si pone come un caleidoscopio di visioni e prospettive. È un susseguirsi di immagini sporche, come quella dell’omicidio di un’attivista, ripreso da un cellulare e di immagini nitide, girate nello stile di quel realismo simbolico di certo cinema orientale moderno (si pensi ai corti di Edmund Yeo o al cinema di Edward Yang). Si tratta di un collage, in cui riflessione individuale sul reale e stralci di cruda e crudele quotidianità in tempi di dittatura, si mescolano con continuità estetica generando una multiforme rete rizomatica di sentimenti, paure, passioni e rabbia collettive. Per mezzo di questo processo i vari autori pongono lo spettatore di fronte a un quadro saturo di punti di vista, espressi attraverso ogni possibile device di riproduzione della realtà. Ovvero pongono chi guarda nella condizione di chi ha registrato ciò che è guardato, cioè di individui anonimi, unità di un popolo scisso – a riguardo è interessante come ogni regista, di cui non è dato sapere il nome, utilizzi vari stratagemmi per non mostrare mai il volto degli attori coinvolti. Tali soggetti sono prigionieri all’interno delle proprie case. Prima per la pandemia e poi, di seguito, come se il colpo di stato fosse una ulteriore catastrofe naturale, a causa della violenza poliziesca scatenata per le strade, nei confronti di manifestanti pacifici e cittadini inermi.

Myanmar Diaries è un film politico fatto di immagini sporche in cui tutti i possibili punti di vista si incastrano

Myanmar Diaries cinematographe.it

Questo del Myanmar Film Collective, però, non è assolutamente etichettabile come cinema vérité, perché non vuole essere né presuntuosamente imparziale, né scevro di implicazioni ideologiche. Tutt’altro, come già accennato, il processo del montaggio di materiali eterogenei è un procedimento linguistico che mira a trovare una verità specifica, quella di un popolo oppresso che si ribella. Esattamente come nel cinema di altri cineasti fortemente politici, che hanno usato la tecnica del collage (il Godard degli anni settanta, Emile de Antonio), la verità è frutto di un processo, non è né naturale né immutabile, ma storica e politica, dunque per forza di cose parziale e in questo caso partigiana. Il film procede, infatti, dalle storie individuali di sconforto, interrotte dalle immagini della violenza di stato, verso una larga sezione in cui viene messa in scena la fuga nella foresta di alcuni ragazzi e ragazze, per unirsi alla resistenza armata. Si entra nei dettagli dell’addestramento, ancora una volta finzione e realtà vengono mixate e lentamente le storie individuali si fondono nell’urlo collettivo dei kalashnikov. Non vi è in tutto ciò nessun gioco post-modernista, nessun relativismo o fascinazione per le implicazioni più controverse del rapporto fra immagini girate ad hoc e quelle estratte dal flusso del reale. Si tratta di usare il cinema, o meglio l’audiovisivo, come un punteruolo con cui colpire l’occhio onnisciente del potere, che attraverso il controllo dei media e i reiterati blackout di internet, avrebbe voluto cancellare ogni traccia delle proprie malefatte e dell’esistenza di chi, ad esse, si oppone.

Nessuna fascinazione in Myanmar Diaries, solo la voglia di arrivare dritti al cuore e agli occhi dello spettatore

Myanmar Diaries cinematographe.it

Effettivamente questo lavoro assume tanta più importanza, quanto, al momento, della crisi in atto in Birmania, sembrano esservi poche labili tracce nella mediasfera globale. Dunque ecco che per una volta il cinema smette di essere mero strumento di (auto)riflessione estetica o di intrattenimento, prodotto da persone appartenenti, per lo più, alle classi sociali ai vertici dei processi economici. Ma incarna, o meglio – essendo, l’opera in questione, un audiovisivo digitale – si smaterializza in un flusso di informazioni digitali, volte a costituire un atto, al tempo stesso, comunicativo e politico, generato dal basso e che si spera possa contribuire a modificare una realtà atroce.

Regia - 5
Sceneggiatura - 3.5
Fotografia - 4
Sonoro - 3
Emozione - 5

4.1