Nanny: recensione del film di Nikyatu Jusu
Nanny si interroga si interroga sul punto della situazione in merito alla possibilità di diventare madre nel mondo contemporaneo.
Aisha è una giovane donna emigrata negli Stati Uniti dal Senegal, dove ha lasciato tutta la sua famiglia, compreso il figlio di pochi anni. Aisha cerca lavoro per raccogliere soldi da inviare in patria e per portare oltreoceano anche suo figlio. Aisha diventa la babysitter di Rose, figlia di una famiglia agiata, ma in cui la maternità è concepita in maniera del tutto marginale rispetto al lavoro e agli impegni quotidiani dei genitori. Quello che Aisha non sa è che in Senegal, la vita di suo figlio non sta andando come pensava. Nanny è il primo lungometraggio di Nikyatu Jusu, disponibile su Prime Video dal 16 dicembre 2022, a quale si interroga come regista e come giovane donna sul punto della situazione in merito alla possibilità di diventare madre nel mondo contemporaneo.
Nanny: un film struggente e onirico
Nanny diventa uno struggente e onirico confronto tra due diversi modi di concepire la genitorialità (e la maternità, in particolare) ognuno dei quali riflette la società in cui si attua. Se la mamma di Rose vive in maniera asettica la vita familiare, dovendo far fronte ai doveri di professionista e socialità (come ricordato anche dalla regista stessa nella nostra intervista) che il presente capitalismo richiede, Aisha resta ancorata a una concezione dell’essere madre decisamente più calda e accogliente, ma anche inevitabilmente alienante rispetto a un mondo che chiede ben altri ritmi a ogni donna. Aisha vive inoltre il paradosso di dover fare da madre a Rose, una bambina che non è la sua, separandosi da suo figlio, per sperare di farlo vivere in modo migliore e dargli un destino più sorridente della sua attuale vita.
Nanny porta avanti un discorso profondamente politico, in cui la società viene esposta con le sue contraddizioni e le sue esigenze a cui siamo di fatto ormai assuefatti. Tutto questo viene vissuto in prima persona dalla protagonista, la quale si rifugia nei suoi sogni per trovare conforto, anche se è proprio nella sua immaginazione onirica che la ragazza riceve dei segnali che forse qualcosa non sta andando per il verso giusto. Alternando sequenze di asciutto realismo, con dialoghi brevi e diretti quasi privi di accompagnamento musicale, a momenti di trasfigurazione onirica, Nikyatu Jusu ci presenta l’immagine di una donna che è al tempo stesso madre e figlia, privata e professionista, interpretata ad alto livello dall’attrice Anna Diop, già vista in Us. Nella ricerca del compromesso di tutte queste sfaccettature, il film trova il suo maggiore compimento, nella raffigurazione cioè delle varie spinte interiori a cui una giovane donna è chiamata a rispondere, adattandosi a una visione di questa problematica non certo rosea.
I toni freddi dominano decisamente la scena in Nanny in modo da ricondurre la prospettiva dei fatti a una visione il più possibile aderente al sentimento reale. Nella stessa direzione va anche la scelta di limitare l’utilizzo della musica al minimo indispensabile, enfatizzando i momenti che affrontano la storia narrata in maniera più astratta. L’epilogo, struggente e spietato, ci porta poi direttamente a una sostanziale regressione, riconducendo tutto, ancora una volta, alla dimensione dell’utero materno. Nikyatu Jusu dimostra in questo suo primo lungometraggio di sapere parlare di argomenti complessi e di saper rendere giustizia alla stratificazione ingombrante che caratterizza il suo personaggio principale; non è un caso quindi che Nanny sia stato insignito del Gran Premio della giuria al Sundance nella sezione dei film drammatici statunitensi e che la regista sia stata nominata all’Independent Spirit Award 2023 come una dei registi più promettenti.