Nebraska: recensione
Billings, Montana. Un vecchio affaticato e in apparente stato confusionale cammina arrancando nella neve ai bordi di una trafficata strada. Solo e smarrito, Woody Grant (Bruce Dern), ex alcolista dall’oscuro passato, è ora convinto di aver vinto un fantomatico premio da un milione di dollari ed è fermamente deciso ad andare con le proprie gambe dal Montana al Nebraska per poterlo incassare. Inutili si rivelano i continui tentativi della bisbetica moglie Kate (June Squibb) con il bisogno fisiologico di dire tutto quello che pensa sparando veleno a destra e manca, e del figlio maggiore Ross (Bob Odenkirk) preoccupato solo della propria carriera televisiva, di dissuadere Woody dal suo insensato ed improduttivo scopo. Sarà il figlio minore David (Will Forte), convinto che il padre abbia solo “bisogno di un motivo per vivere” ,ad assecondarlo ed assisterlo nel suo viaggio che lo porterà a ripercorrere le tappe del proprio passato per poter finalmente costruire un futuro, un equilibrio personale e familiare mai esistiti prima, mostrando che non è mai troppo tardi per provare a dare una svolta nuova alla propria vita.
Quella di Nebraska è la storia di un padre alcolizzato ed assenteista, probabilmente carico di rimpianti e fallimenti celati dietro ad uno sguardo ingenuo e smarrito, e di un figlio, insoddisfatto di sé e della propria vita, che fa di tutto per (ri)allacciare con lui un qualche tipo di rapporto, per conoscerne il passato, riscattandolo così agli occhi degli altri ma soprattutto ai propri. Quarto lungometraggio del regista Alexander Pyne, Nebraska si configura come un malinconico e dolceamaro Road Movie, una storia di fragili equilibri familiari esplorati con infinita dolcezza e delicatezza attraverso il giusto mix di malinconia e complicità ed arricchita dalla magistrale interpretazione del cast, la cui punta di diamante è sicuramente Bruce Dern che restituisce al personaggio di Woody tutta la fragilità di un anziano considerato ormai solo un “vecchio rimbambito” e la complessità di un uomo che ha vissuto una vita vuota e priva di veri legami, aggiudicandosi così il premio per la migliore interpretazione maschile alla 66ma edizione del Festival di Cannes.
Nebraska riscopre ed esplora i tanto labili quanto complessi legami familiari mostrando errori e gioie, rimpianti e speranze di uomini comuni, senza mai cadere in eccessivi sentimentalismi o in comuni banalità, ma trasformando un viaggio alla ricerca di un fantomatico premio, un fisico spostamento dal Montana al Nebraska, in un viaggio profondamente introspettivo, capace di scavare nell’intimità, nella psiche e nella storia stessa dei personaggi per portarne alla luce la fragilità e la determinazione.
L’atmosfera calda e familiare che si respira, è in gran parte merito della fotografia in bianco e nero, che evoca forti suggestioni, imprimendo i paesaggi di un’aurea quasi fiabesca ed incantata, una visione d’altri tempi, che conferisce drammaticità ed eleganza, speranza e malinconia, così come la scelta dei paesaggi disadorni e a tratti selvaggi, caratterizzati da cime innevate e valli infinite, restituisce l’immediatezza e l’autenticità dei personaggi, semplici ma allo stesso tempo complessi, fragili e diretti, e del loro modo di vivere scarno, privo di vezzi e fronzoli.
La sceneggiatura aggraziata ed accurata, ha il suo indiscusso punto di forza nei dialoghi essenziali , fatti più di silenzi e piccoli cenni che di pomposi discorsi, ma allo stesso tempo intimi ed aggraziati, profondamente rivelatori di un rapporto padre-figlio inizialmente inesistente, privo di fondamenta, fatto di mancanze ed incomprensioni, ma destinato a trasformarsi, a diventare reale e profondo, cancellando i vuoti del passato. Emblematica a tal riguardo è la scena conclusiva in cui Woody al volante del tanto ambito camion, saluta i concittadini della sua città natale con un semplice cenno della mano che si fa metafora di un addio al proprio passato, così come la macchina che si allontana all’orizzonte è emblema di un nuovo grande viaggio, il ritorno a casa.