Venezia 77 – Night in Paradise: recensione del film di Park Hoon-Jung
Night in Paradise è il film di Park Hoon-Jung che mischia melò e gangster movie rivelandosi, però, quasi preconfezionato.
Alberto Barbera lo ha presentato come uno dei suoi film del cuore di questa Venezia77: Night in Paradise, infilandosi nel genere del gangster movie, si stabilisce fuori concorso nell’edizione più autoriale che la Mostra del Cinema ha presentato nel corso dei suoi ultimi anni, affidando l’intrattenimento che, solitamente e non necessariamente, apparteneva alla controparte americana, alla pellicola di Park Hoon-Jung. È il cinema coreano che, non da meno di quello degli studios statunitensi, si presenta con il suo piglio spettacolare, la sua narrazione lineare che si stratifica in trame e sottotrame, con l’aggiunta di una parte d’azione animata che, nel cinema asiatico, si avvale della grande conoscenza della costruzione di impressionanti scontri, fisici e armati.
E se proprio un film coreano come Peninsula, sequel dell’acclamato Train to Busan, ha sbancato il botteghino asiatico nella sua era post-Covid, è sulla medesima scia che vuole porsi l’opera scritta dallo stesso Hoon-Jung appartenente ad un cinema per il largo pubblico, molto chiara nella delineazione dei suoi schemi di scrittura che risultano questa volta, purtroppo, avere un sentore di qualcosa nato già preconfezionato.
Night in Paradise – La romanticizzazione della gangster story
Tra torti e vendette di un gruppo di criminali sleali e tatuati, il protagonista interpretato da Eom Tae-goo pareggia i conti con il presidente di un’associazione criminosa che ha ucciso sua sorella e la piccola nipote, costringendolo a rifugiarsi sulle rive di un paesino distante dal clima caotico della città, dove potersi riassestare prima di scomparire. Lì, nell’atmosfera pacifica di un posto dove poter sfuggire da tutti, il giovane si imbatterà nell’instabile Jean Yeo-been, legandosi alla ragazza e alla sua morte sempre più vicina, fino a proteggerla quando la sua copertura verrà messa a rischio.
Se l’atmosfera di Night in Paradise al suo prologo faceva ben sperare in un’esperienza a suon di lotte e di scorrimenti di sangue, è nell’addentrarsi nella storia con incoscienza che il film vede il suo esaurirsi prima ancora di aver completato le sue due ore e dieci di visione. Contestualizzando colori e luci che non saranno gli stessi per tutto il corso del film, adattandosi al cambiamento di tema e, insieme, soggiogando alla piega romanticizzata, sentimentalmente e romanzescamente, della sceneggiatura, la pellicola di Park Hoon-Jung parte con l’estro artistico pur declinato in formule conosciute, per poi adattarsi alle conformità, stilistiche, ma soprattutto narrative, di un’opera che sembra già vista e assorbita, prevedibile nel suo porsi quanto nel suo presentarsi.
La chiave melò del film di Park Hoon-Jung
Una totale assenza di briosità nel film che si addentra su binari classicheggianti, una maniera prestabilita di raccontare una novella di vendetta di un bonario e fascinoso (anti) eroe, con tanto di gangster al seguito e fanciulla di cui potersi infatuare. Mischiando, dunque, le opportunità datesi di racconto, giocando con la doppia linea dell’opera romantica e quella, la sua esatta corrispettiva, che insegue e rivendica un patto con la morte, Night in Paradise finisce per assorbire dentro di sé i canoni del melo più spassionato, del dramma sentimentale più banalizzato. Una convenzionalità, seppur intercalata da innesti comici e d’appiglio apprezzabili, che si arranca comunque il diritto di potersi sfogare, mostrando nella parte più cruda, quella iniziale e quella lunga – troppo lunga, eccessivamente lunga – del finale la sua parte originale.
Tutta l’ordinarietà dell’amore e della criminosità risiede così visibile e senza abbellimenti nel Night in Paradise di Park Hoon-Jung. E forse, di abbellimenti, anche limati e circoscritti, ne sarebbero serviti. Almeno questa volta.