Nome di Donna: recensione
Nome di Donna, al cinema dall'8 marzo con Lionello Cerri per Lumiére & Co e Rai Cinema, racconta una storia di violenza e abuso di potere quanto mai attuale, una piaga che bisogna sconfiggere per far rispettare i propri diritti.
Marco Tullio Giordana ha scelto la propria parte ed è quella delle donne. Nel turbinio degli scandali sessuali che hanno scoperchiato l’impero dell’abuso, che hanno direzionato i riflettori sulla predominanza del potere il quale sente il dovere di agire sia sulla sfera fisica che emotiva, il nuovo film del regista italiano Nome di donna (qui il trailer) sembra capitare in maniera quanto mai appropriata visto il momento storico in cui la pellicola viene a trovarsi. Un’opera conscia di dover parlare in un tempo di transizione in cui è necessario dare voce a chi non ha timore di essere schiacciato. Perché solo la verità può contrastare il peso illecito del sopruso, subendo a sua volta contraccolpi che diventeranno le medaglie da ammirare e imitare.
Nome di donna è la storia di Nina, ma è al contempo la storia di tantissime altre donne. Un copione che non smette di ripetersi nelle sue diverse fasi, che si succede sempre uguale, sempre disgustoso nel suo similare, traumatico svolgersi. Una visione chiara che, pur nelle sue carenze, ha il valore di riportare la concretezza della violenza che non sarà mai più possibile lasciarsi scivolare addosso, rimanendo indelebile come una seconda pelle. Una scorza più dura pur nella sua inevitabile vulnerabilità.
Nome di donna – Un film semplice e didascalico
Nina (Cristiana Capotondi) ha cresciuto sua figlia da madre single. Ora ha un compagno ed è disoccupata da un anno, in procinto però di iniziare un nuovo e del tutto differente lavoro in un istituto per anziani, luogo di ristoro gestito dal dirigente Marco Maria Torri (Valerio Binasco). Una personalità di spicco, capace di rivelarsi particolarmente generoso se si è generosi con lui a sua volta. Un tipo di premura che le inservienti del posto hanno imparato a conoscere a proprie spese, spogliate della divisa e della loro dignità. Ma sarà proprio Nina a fermare un circolo avvelenato in cui l’autorità non potrà più rimanere impunita, ribellandosi alla legge del silenzio e applicando quella della giustizia.
È di certo curiosa la tempestività con cui Nome di donna approda nelle nostre sale. L’attualità raccontata da un film che ha percorso circa due anni di lavorazione e che, nel suo voler narrare da tempo della violenza e del suo rifugiarsi nel dominio, mostra in modo doppiamente chiaro quanto la mancata parità di genere e l’assuefazione del comando siano piaghe troppo spesso sottovalutate, se non addirittura ridicolizzate in un periodo in cui sembra improbabile credere che tanti maltrattamenti possano rovinare la vita di innumerevoli persone.
Il film del regista Marco Tullio Giordana, scritto assieme a Cristiana Mainardi, concentra invece direttamente l’occhio della camera da presa sul tema dell’abuso, presentando con trasparenza l’oggetto d’attenzione che costituisce l’intera trama, ma sviando a volte dalla dimensione cinematografica, che spesso scompare dietro un alone che ha le sembianze della fiction televisiva. Una fattura semplice che purtroppo non riesce a distaccarsi da un metodo di comunicazione didascalico, specchio limpido utile alla rappresentazione dell’argomento, ma ancora una volta lontano dalla realizzazione di un’opera degna di nota, soprattutto per una seconda parte che sembra sfuggire completamente di mano all’incastro del film.
Nome di donna – Più esempio quotidiano che film vero e proprio
Benché l’esplicativa sceneggiatura e il contesto attorno innalzato si limitano a riportare i fatti con semplicità non pienamente convincente, l’idea che Nome di donna si propone di avanzare non deve comunque venir messa mai in dubbio. I disagi che il personaggio di Nina affronta sono quelli di un numero altissimo di donne che, nelle medesime situazioni, hanno dovuto saper cavarsela e non per adempiere ad un capriccio, ma per rivendicare un proprio diritto. Più vicino all’esposizione di un caso, un esempio della quotidianità piuttosto che vero e proprio film, ma sicuramente primo passo per trattare con maturità il tema e sperare che, con la giusta e analizzata presa di coscienza, si possa osare maggiormente in futuro.
Con Cristiana Capotondi, Valerio Ninasco, Stefano Scandaletti, Michela Cescon, Bebo Storti e Adriana Asti e l’importante musica del compositore da Oscar Dario Marianelli, Nome di donna è l’insegnamento da cui partire per attivare il proprio senso civico, lo spunto per arrivare ad un’opera che possa rivelarsi più appassionante e completa.