Non buttiamoci giù: recensione del film tratto dal romanzo di Nick Hornby
Nel doppio registro drammatico e ironico e nella mancata comprensione umana di un gesto incomprensibile, Non buttiamoci giù vuole parlare di suicidio ma ne sfrutta solo la portata narrativa. L’adattamento di Pascal Chaumel dell’omonimo romanzo di Hornby maneggia una tematica complessa con troppa sommarietà.
Pochi minuti prima lo scorrere dei titoli di coda di Non buttiamoci giù, il personaggio interpretato da Aaron Paul dietro lo schermo di un computer racconta ai suoi tre compagni di avventura un breve aneddoto narrato dal suo terapista presso cui è in cura da qualche mese. Un uomo, cinque secondi prima di morire, si rende conto che l’unica cosa che ormai non può più sistemare sono esattamente quei cinque secondi prima dell’impatto del suo corpo con il pavimento dopo un salto volontario come gesto finale e autodeterminato per porre fine alla sua vita. In quell’aneddoto il regista Pascal Chaumel sembra voler racchiudere il senso ultimo di un film che spera di lasciare allo spettatore un messaggio di speranza alle inevitabili avversità della vita e infondere un alito di possibilità benefica e salvifica finché si è su in piedi questa terra. Troppo tardi però. Quella riflessione conclusiva non basta a salvare un adattamento cinematografico davvero poco riuscito che proprio nel suo stesso finale rintraccia l’unica coordinata possibile e l’unico ponte comunicativo che poteva costruire su un tema spinoso e a tratti ancora inaccessibile come quello del suicidio.
La trama di Non buttiamoci giù
La notte di Capodanno, in una Londra solita alla sua consueta uggiosità, Martin Sharp (Pierce Brosnan) sale in cima ad un palazzo conosciuto anche come la casa dei sucidi. In bilico su una scala a picco sul cornicione dell’edificio l’uomo sembra intento a buttarsi e porre fine alla sua vita e alla sua carriera distrutta dopo uno scandalo che lo vede coinvolto con una minorenne. Il suo gesto finale però viene improvvisamente interrotto dall’arrivo di Maureen (Toni Collette), una donna di mezza età estremamente introversa e madre di un figlio con un grave handicap; Jess (Imogen Poots) ragazza disperata e incline all’autodistruzione dopo la scomparsa della sorella e JJ (Aaron Paul) il pizza boy che giustifica la sua presenza nella casa dei suicidi con una presunta malattia incurabile. I quattro dopo aver passato 24 ore insieme decidono di posticipare la loro dipartita sino al 14 febbraio, data simbolica e scadenza ultima per ritrovare il senso del vivere oppure riconsiderare, inesorabilmente, di nuovo il suicidio.
La volontà di percezione del dolore e il tentativo di comprensione di un gesto finale e autodeterminato non riescono a catturare l’empatia dello spettatore
Tratto dal romanzo dell’autore, sceneggiatore e critico letterario Nick Horny, Non buttiamoci giù sceglie la sua forma narrativa nell’incontro di quattro personalità diverse e opposte nella vita quanto simili e concorde nello scegliere il suicidio come unica via possibile ad una sofferenza insopportabile. È la percezione del dolore singolo ma condiviso che film come questi dovrebbero naturalmente porre il filo conduttore che attraversi la narrazione tutta; perché è proprio nella trasparenza del dolore che lo spettatore riesce a decifrare e probabilmente accettare un gesto inspiegabile. Chaumel invece, sceglie il logorio a intermittenza, mostrando una sofferenza troppo superficiale in una sceneggiatura che sfrutta lo struggimento e lo tramuta in noia. In Non buttiamoci giù, la suddivisione del racconto in sezioni personali che alternano il punto di vista e il voiceover dei quattro vorrebbe personalizzare e invece confonde, vorrebbe indagare e invece allude.
Il doppio registro e un mal de vivre ripreso da una telecamera impersonale
Il gruppo di misfits con le sue singole problematicità messe in campo, non riesce a trovare un afflato comune ma è utilizzato per mischiare due registri, quello comico e quello più drammatico che complessivamente stona e confonde la reale portata della volontà del gesto. Lo spettatore fino all’ultimo non percepirà mai a fondo le cause, i tormenti, le circostanze esistenziali o mentali dei quattro. Un po’ di rimmel che cola dagli occhi di Jess, le fatiche e la routine dedicata ad un figlio disabile, uno scandalo giudiziario e un mal de vivre mai catturato da una telecamera impersonale (che ripiega in sequenze intime e riflessive con accompagnamento musicale) imbastiscono un affresco sulla possibilità e la speranza non toccando veramente e profondamente le corde morali e intime di chi di quel dolore dovrebbe percepirlo e dunque comprenderlo.