Biografilm 2022 – Non sono mai tornata indietro: recensione
Il documentario di Silvana Costa, vincitore del premio Best Film BPER al Biografilm Festival 2022
Nel documentario contemporaneo la soggettività dell’autore, la sua presenza, è divenuta sempre più importante. Così che il corpo autoriale, anche quando è rappresentato solo da una sua estensione, come la voce, si configura quale principale strumento della modalità performativa del genere (Bertozzi, Documentario come arte). Modalità che ne esplicita l’impossibilità della trasparenza e, di conseguenza, la parzialità di una visione che chiama in causa il manifestarsi stesso della vita. Il documentario Non sono mai tornata indietro di Silvana Costa, vincitore del premio Best Film BPER al Biografilm Festival 2022, ben esemplifica le potenzialità che possono emergere da questo approccio al cinema del reale.
Il film racconta la storia di Iolanda, donna calabrese di famiglia povera, che, ancora bambina, fu ceduta a una famiglia ricca, per divenirne, letteralmente, la serva, in cambio di una casa e di cibo. All’età di quarantaquattro anni Iolanda abbandona l’Italia e va a vivere a Toronto, dove fra l’impossibilità di sfuggire alle proprie radici e confusi aneliti alla libertà, si costruisce una nuova vita.
Non sono mai tornata indietro racconta un mondo patriarcale
La vicenda, di per sé, è molto interessante e testimonia di un mondo arcaico, crudele e improntato sul più oppressivo patriarcato. La regista, con una brillante intuizione, decide di restituire questo scenario attraverso il montaggio di foto e filmati d’epoca – la storia inizia nel dopoguerra – accompagnati dalle testimonianze anonime di altre donne, accomunate a Iolanda da una simile condizione. Vi è un’urgenza di utilizzare il cinema come strumento che permetta di dar voce a coloro i quali non è mai stata data. Anche il linguaggio visivo usato è definito da tale necessità. Siamo di fronte a un documentario che rifugge i barocchismi di montaggio. La fotografia è semplice e rigorosa, nel suo farsi testimone di una storia individuale che assume su di sé un arcaico destino collettivo. Iolanda è spesso protagonista assoluta dell’immagine e la sua centralità nella costruzione del quadro, ribadisce quanto l’intera opera sia uno sforzo di risarcire, in qualche maniera, una vita relegata al ruolo di comprimaria delle vite altrui. Vite poste su un livello di superiorità ontologica da una società organizzata attorno a un sistema classista, basato sul possesso ereditario di beni materiali, come il denaro e immateriali come la cultura.
Non sono mai tornata indietro: la performance di Silvana Costa al Biografilm 2022
Quel che più importa però ai fini del nostro discorso è la funzione che il cinema assume in questo quadro, attraverso la trasparente presenza della regista. La famiglia per cui Iolanda ha lavorato per tanti anni è stata quella d Silvana Costa. La protagonista del film, in quanto bambinaia della regista, è stata per lei una sorta di seconda madre. Così quello che potrebbe apparire come un documentario di stampo pasoliniano sulla persistenza e la metamorfosi, all’interno della società dei consumi 2.0, di un certo tipo di umanità contadina pre-industriale, diventa un atto performativo dell’autrice. La Costa si mette in scena per mezzo della voce, mostrando le sue interazioni con l’ex bambinaia, durante le riprese. Tale atto rende la narrazione filmica un processo attraverso cui la riflessione sulla propria classe di appartenenza dialoga con la vicenda di chi, i meccanismi gerarchici di quella classe li ha subiti. Così che, al di là delle implicazioni personali, il conflitto fra la comunque sentita appartenenza di Iolanda alla famiglia della Costa e la sua fuga – supportata peraltro dalla regista stessa, ancora ragazzina – assume i contorni di un conflitto più ampio. È in gioco il legame degli emigranti con il fantasma di una immaginaria identità italiana che passa per le radici familiari e l’anelito a crearsi una nuova identità. Lo statuto liminare che Iolanda occupa a Toronto fra gli altri italo-americani (ne condivide il ricordo idealizzato dell’Italia, ma non la storia migratoria, né le usanze), contribuisce a decostruire la retorica propria di concetti come appartenenza, patria e famiglia. Esse smettono di essere unità fondanti della soggettività e luoghi spirituali o fisici verso cui tornare. Il ritorno in Calabria, infatti, è fallimentare e la storia familiare condivisa di Iolanda e Silvana si risolve, necessariamente, in quella dell’opposizione fra le rispettive classi sociali, da cui alla fine entrambe le donne hanno cercato di emanciparsi. Una attraverso una nuova vita e l’altra attraverso il cinema.
L’incontro fra le due forme di emancipazione dunque, abbiamo detto, si configura come un procedimento dialogico fra due classi/mondi, ma diventa anche indice del rapporto fra lo sguardo cinematografico dell’autrice e l’oggetto su cui esso si posa, Iolanda. Nuovamente si crea un rapporto gerarchico poiché l’obiettivo della macchina da presa, per quanto intriso di onestà e affetto, risulterà sempre dominante rispetto all’oggetto del suo interesse.
Al pubblico, allora, l’arduo compito di riflettere su questo cortocircuito estetico/ideologico, da cui, forse, emerge un ulteriore significato dell’atto di girare un documentario.