Non sono più qui: recensione del film Netflix di Fernando Frías
Netflix presenta un’opera originale e complessa, che al ritmo della cumbia racconta l’attaccamento per la propria terra e l’emigrazione forzata.
Una cresta di capelli che termina in un ciuffo biondo, le basette incollate alle guance che scendono fino al mento e terminano in due punte ossigenate. La pettinatura di Ulises a New York attira subito l’attenzione: molti per strada gli dicono che è cool, qualcuno vuole fare addirittura una foto, mentre i suoi connazionali lo prendono in giro e pensano voglia solo mettersi in mostra. Nessuno capisce che quella capigliatura, insieme alle maglie larghe e alla cumbia, non è solo uno stile, ma è parte dell’identità di Ulises, un’armatura per proteggersi da una terra che non capisce e per mantenere ancora un contatto con la sua comunità.
Il protagonista di Non sono più qui è il diciasettenne Ulises, arrivato a New York per scappare dalla città messicana di Monterrey, dove è stato testimone involontario di una resa dei conti tra gang avversarie: deve fuggire o rischia di essere ucciso. Questo però lo capiamo solo a metà del film, prima si alternano due piani temporali e geografici che disorientano lo spettatore, trasmettendogli il senso di smarrimento provato dal protagonista.
Non sono più qui: tra due paesi, da nessuna parte
A New York Ulises è timido e spaventato, malgrado cerchi di nascondere la paura dietro a un’espressione imperturbabile. È chiuso in un mutismo che agli altri sembra presunzione, in realtà è solo la manifestazione di una dolorosa alienazione, poiché non sa parlare una parola di inglese. A Monterrey invece Ulises è il leader di una banda di ragazzini che passano le giornate tra piccoli furti e soprattutto musica e balli. Mentre si muove al ritmo della cumbia Ulises si sente a casa, è felice anche in mezzo allo squallore di case fatiscenti.
Sin dal nome del suo protagonista, Non sono più qui si collega al tema omerico del viaggio e del ritorno a casa, mostra la patria come unico luogo in cui poter essere se stessi. Ma il regista Fernando Frías inserisce questo tema in un contesto storico e sociale lacerato: Ulises infatti non può tornare indietro, ama la sua terra ma viene allontanato dalla violenza che regna in Messico. Il ragazzo non può però nemmeno trovare una nuova casa, perché l’America, la terra promessa dove si racconta che tutti possono affermarsi, è in realtà un luogo ostile, che rigetta da subito Ulises, se ne interessa solo per la sua acconciatura esotica ma non cerca di comprenderlo né tantomeno di sostenerlo.
Nel contrasto tra i due piani geografici colpisce proprio la differenza tra la comunità di Monterrey, accogliente e pronta ad aiutarsi malgrado le difficoltà economiche, e lo spietato individualismo occidentale. Gli unici due personaggi che si avvicinano ad Ulises sono la prostituta Gladys, che ospita il ragazzo per una notte, e la giovane Lin, che trova Ulises rifugiato sul tetto della sua casa e tenta di aiutarlo. Lin è l’unica a provare ad integrarlo, a chiedergli di Monterrey, a regalargli un dizionario e portarlo con se ad una festa. Ma alla fine entrambe le donne per motivi diversi chiuderanno la porta delle loro case in faccia ad Ulises. Non sono cattive, sono figlie di un’Occidente dove il senso di comunità non può esistere e la società si è disgregata in atomi che per sopravvivere devono pensare solo a se stessi.
Al ritmo della cumbia
La cumbia, musica popolare colombiana diffusasi anche nel nord-est del Messico, non è solo una colonna sonora, ma diventa assoluta protagonista del film. Lontano dai suoi famigliari e amici, dalla sua terra e dalle sue abitudini, Ulises si sente a casa solo quando si mette le cuffie e lascia risuonare quella musica tribale, lenta e ipnotica. La cumbia detta anche il ritmo del film, che si muove in modo cadenzato e spesso circolare, ritorna negli stessi luoghi, attraverso la musica agevola il passaggio tra i due piani narrativi (Monterrey e New York).
Proprio questo meccanismo, pur costituendo uno degli elementi di maggiore fascino di Non sono più qui, ne rappresenta anche un limite. Molti snodi narrativi rimangono infatti sullo fondo o vengono risolti troppo rapidamente, soprattutto nel finale, che appare un po’ frettoloso. Il film fa poi la scelta di focalizzarsi sul punto di vista del protagonista, che ha il volto e la presenza fisica del sorprendente attore esordiente Juan Daniel Garcia Treviño, non permettendo però a nessun personaggio secondario di emergere. La famiglia e gli amici di Monterrey appaiono come un gruppo indistinto, mentre le figure incontrate a New York vengono tratteggiate in maniera superficiale, anche per trasmettere l’idea che Ulises non riesca a conoscere davvero nessuna delle persone con cui viene in contatto in America.
Non sono più qui è un film originale, con alcune imperfezioni ma anche molti elementi di interesse: dalla rappresentazione di una subcultura sconosciuta in Occidente, al coraggio con cui affronta il dramma dell’immigrazione forzata attraverso gli occhi di un ragazzino. Si tratta di un prodotto che conferma anche la ricchezza del catalogo Netflix, che a titoli più commerciali aggiunge un dramma adolescenziale diverso, capace di riflettere le contraddizioni economiche e sociali del presente.