Occhiali Neri: recensione del film di Dario Argento

Il maestro del brivido torna dietro la macchina da presa con Occhiali Neri, al cinema dal 24 febbraio 2022.

Immaginate se, in un periodo già infermo per la sale cinematografiche, ci si mettesse anche l’ambiguità di un Maestro del cinema e il suo ultimo – mal riuscito – film. Stiamo parlando di Dario Argento, che torna sul grande schermo a dieci anni dal discutibile Dracula 3D. Ma il bentornato è amaro e, come l’eclissi di sole che apre Occhiali Neri, rischia di gettare ulteriore buio e confusione su un panorama desolante.

Occhiali Neri è problematico anche perché a dirigerlo è Dario Argento e, come sovente accade in questi casi, detrattori e difensori abbracciano con passione una causa in cui a perdere è solo lo spettatore, sollecitato a continuare a premere play dal divano di casa per zittire un rumore di fondo ormai privo di ogni mordente culturale. Occhiali Neri, presentato alla Berlinale 2022, ma dal 24 febbraio in tutta Italia per Vision Distribution, può essere raccontato in due modi. Un film classico, memore degli albori del giallo all’italiana anni ’70. O, al contrario, un film vecchio: ignaro dell’anno (e del cinema) corrente.

A 81 anni, Dario Argento è un bene culturale meritevole delle migliori pagine di storia contemporanea. Ma dal momento che, a buon diritto, decide di mettersi ancora dietro la macchina da presa, è con gli strumenti in nostro possesso che ne giudichiamo il presente. A buon diritto nel senso che può farlo e giustamente ha i produttori che vogliono crederci. Che il risultato sia però così claudicante è una colpa condivisa dalla produzione e non può, da solo, una firma così importante giustificare un risultato alquanto dubbio. A nostro avviso, con o senza occhiali neri indosso, il ritorno del Maestro coglie le tristi forme di un’arte fiacca, limitata da comparti tecnici privi di aderenza con la media qualitativa odierna e un plot troppo esile per colmare ogni vuoto.

Occhiali neri e occhi chiusi

Occhiali Neri film - Cinematographe.it

Partiamo dalle lodi. Meritevoli di plausi insperati sono infatti le musiche di Arnaud Rebotini (compositore di Blair Witch), chiamato a sostituire i Daft Punk in seguito alla notizia del loro scioglimento. Il commento sonoro è stupefacente in quello splendido imbroglio che è l’inizio di Occhiali Neri. Surreale e rarefatto, il prologo ci guida a osservare la magia dell’eclissi. Ilenia Pastorelli interpreta una disincantata prostituta, colta dal fascino del sole che scompare in un evento di rara e pericolosa bellezza. Quel buio che cala su ogni cosa annuncia la cecità che il primo incontro con un serial killer le procurerà. “Due cose non si osservano mai: la morte e il sole”. La ubris, lo sappiamo, è una promessa. Fino a questo punto, Occhiali Neri ha un fascino che gioca con il dubbio. Quando le mani avvolte da guanti in pelle – tocco d’Argento in una tradizione che dobbiamo ricordare essere stata inaugurata da Bava – afferrano il collo della prima vittima sussultiamo con interesse. La triste smentita giunge con ineludibile tempestività.

Un’indagine poco proficua, guidata dal detective interpretato da Mario Pirrello, scopre che tre sono le vittime che sino ad ora ha mietuto un killer di cui conosciamo solo il furgoncino bianco. Come in Duel di Spielberg, abbiamo paura del veicolo prima che dell’uomo. Quando la vettura si avvicina, come camminasse minaccioso, sentiamo l’arrivo di un mistero: chi sarà? Cosa vuole? L’assurda rivelazione, che cerca sostegno in un gioco di simboli dedicati allo sguardo – riflessione di interesse per un Maestro che ha costruito una fortuna sul vedere e il mostrare -, è il vero omicidio di Occhi Neri. Per essere un serial killer, l’uomo sulle cui mani sgorga il sangue di tre donne, ha un movente talmente specifico che  obbliga a credere alla follia pur di ignorare le assurde ammissioni. Ma i perché dell’assassino possono anche essere secondari. Rimaniamo con Diana e il piccolo Chin, bambino sopravvissuto allo stesso incidente in cui la ragazza perde la vista. I due si uniscono nel dramma, ma in nessun modo lo spettatore è invitato a simpatizzare coi protagonisti. Le battute allontanano ogni empatia perché calate in un contesto forzato, che maschera una sottrazione di minore per un gesto d’amore (o una reazione folle al senso di colpa) e che impedisce di comprendere le azioni e le scelte prese. Anche qui, in parte, si opta per una follia. Ma se nessun personaggio è presente a se stesso allora sorge il dubbio che per lo spettatore, in questa storia, ci sia molto poco.

Il rapporto di Diana e Chin in Occhiali Neri è subìto dallo spettatore, inerme di fronte all’incontro ingiustificato di due figurine di cartapesta. Ilenia Pastorelli, la cui prova attoriale sembra avere poco da spartire con il folgorante esordio in Lo Chiamavano Jeeg Robot, che le valse a pieno diritto il David di Donatello, è costretta da una sceneggiatura in cui sembra boccheggiare.

La differenza tra classico e inadeguato in Occhiali Neri

Occhiali Neri Ilenia Pastorelli - Cinematographe.it

La quantità di scene gettate nel mucchio, prive di sostanza e affidate a un tappeto sonoro su cui, nonostante ogni buona nota di Rebotici, ci si trova a scivolare, racconta una produzione priva di coraggio. Molto era meritevole di essere tagliato fuori, altrettanto richiedeva spesse linee di penna rossa a riscrivere intere pagine di sceneggiatura.

A zoppicare è assieme grammatica e sintassi del film: l’inquadratura più cercata, magari fedele ai canoni del genere che Argento stesso portò alla massima espressione artistica, si incastra in sequenze volte all’imbarazzo formale. Peschiamo due esempi. Quando nell’ultimo atto l’assistente di Diana – interpretata da Asia Argento – incrocia il killer lungo la via di casa, Argento spezza la sequenza mostrando entrambi i personaggi colti da un’improvvisa epifania mostrata su schermo in due scene distinte. Lo spettatore non necessitava di un richiamo così letterale, e subendolo si trova estraniato dal film proprio nella fase in cui il climax è ormai imbastito. Poco dopo, quando il killer ha già raggiunto l’assistente, la cui realizzazione era servita poco, Diana decide – con un colpo di tatto da vera maestra dell’orrore (che sia lei la cattiva?) – di rivelare al piccolo Chin che la madre è morta. Tutto questo davanti al corpo privo di vita di un’altra donna. Perché due traumi si eliminano a vicenda, pare. Non si vuole in questa sede giocare a pizzicare la bambola Voodo nel sadico tentativo di far sgorgare sangue da ogni difetto del film. Quanto si cerca di osservare è però che tra Classico e inadeguato siede un confine su cui si può anche elucubrare, purché si riconoscano i limiti di una messa in scena oggi inopportuna e del tutto anti-narrativa. L’anacronismo di Argento non è narrativo e non si muta in tema: non è fuori tempo (che può essere un merito), è solo fuori luogo. Possiamo di certo usarlo, per osservare le briciole di pane che conducono a un cinema oggi perduto, ma con la consapevolezza che di fatto non sarebbe stato un buon cinema nemmeno allora. Ne è solo una mimica opaca, in cui i movimenti di macchina, l’idea di composizione, richiama un’epoca, ma non nella sua miglior espressione. Di certo Argento non è tenuto a parlare un linguaggio contemporaneo, ma nella sua modernità non si evince un messaggio o una forma da cui ereditare un insegnamento utile all’intrattenimento dello spettatore o alla direzione del cinema. La saggezza di cui l’età vorrebbe investirne i prodotti si disperde, e forse bastava un insieme produttivo più attento e capace di guidarne il risultato.

Regia - 2
Sceneggiatura - 1
Fotografia - 2
Recitazione - 2
Sonoro - 3.5
Emozione - 2

2.1