Occupied City – recensione del film di Steve McQueen
Occupied City, l'opera monumentale di Steve McQueen, che riflette sugli spazi urbani e la memoria arriva su Mubi.
Prima di Occupied City Steve McQueen è noto al grande pubblico principalmente per i suoi film di finzione, Hunger (2008), Shame (2011) e 12 anni schiavo (2013), che ha vinto l’Oscar come miglior film. Si tratta di opere ben radicate in un discorso sociopolitico, intento a costruire una narrazione militante. McQueen infatti tratta in Hunger del rapporto fra democrazia e dissenso, del sistema carcerario inglese e della questione irlandese, attraverso le vicende del prigioniero politico dell’IRA Bobby Sands. In Shame invece decostruisce il concetto di virilità tradizionale e mette in scena le contraddizioni della sessualità, intesa come motore del desiderio, anche economico, della nostra società. Infine in 12 anni schiavo, attraverso l’autobiografia di Solomon Northup, racconta l’infamia della schiavitù in America prima della guerra di seccessione. Il successivo Widows – Eredità criminale (2018) è un adattamento di una serie televisiva britannica e anche qui, pur all’interno di una struttura di genere (thriller), emergono le tematiche care al regista, come il ruolo della donna in una società patriarcale e una certa critica anticapitalista.
Occupied City. Fra videoarte e film politico.
Con Occupied City McQueen compie un’operazione radicalmente opposta a Widows. Torna a un linguaggio rigoroso, privo della benché minima concessione all’intrattenimento e recupera tutta la sua esperienza da videoartista. Il film è una monumentale opera di quattro ore, composta da vedute metropolitane e interni borghesi della Amsterdam del periodo del Covid. Le vedute sono per lo più composte da quadri fissi, costruiti secondo un rigore formale sorprendente. Ogni quadro è sì un’immagine che racconta la vita quotidiana di una città, ma si configura anche come un’astrazione fatta di traiettorie visive, che si perdono l’una nell’altra attraverso la contiguità di forme e colori. I piani dell’immagine sono molteplici e assumono un valore materico che vuole simboleggiare come una città e con lei la civiltà che la abita, siano costruite su più strati, ovvero su più piani temporali. I pochi articolati movimenti di macchina sottolineano questa fluidità degli spazi materiali che si traduce in fluidità temporale. McQueen racconta gli spazi cittadini come fossero gli spazi di un tempo storico sempre presente, edificato con i diversi materiali della Storia. La memoria della città appunto.
Questa memoria però, in contrasto con le immagini di vita notturna, di case borghesi, di anziani ancora attivi, di bambini che giocano, di musei e di giovani multietnici, è una memoria oscura e crudele. È la memoria del nazismo, dell’Amsterdam occupata degli anni quaranta, periodo nel quale le famiglie ebree e rom venivano sterminate, i resistenti comunisti denunciati e gli omosessuali perseguitati. Le quattro ore di questa moderna sinfonia di una città sono infatti commentate dal voice over di Melanie Hyans, che legge brani tratti dal libro Atlas van een bezette stad: Amsterdam 1940-1945 della moglie di McQueen, Bianca Stigter. La regista e scrittrice ha compiuto un dettagliatissimo lavoro di ricerca, grazie al quale ha ricostruito le vicende delle tante vite spezzate dall’obbrobrio nazista ad Amsterdam, legandole ai luoghi che fecero da sfondo o da palcoscenico per la tragedia. Luoghi che spesso sono stati riconvertiti o semplicemente demoliti negli anni successivi alla guerra.
Occupied City: valutazione e conclusione
Occupied City insomma è un’atlante della memoria rimossa di una società occidentale che si proclama ormai scevra dal cancro del pensiero politico nazista. Cancro che, però, proprio durante il Covid, in qualche maniera ha proiettato la sua squallida ombra sulle proteste novax, da un lato e sui metodi coercitivi che i vari Stati han messo in campo per far rispettare le regole sanitarie e di distanziamento sociale, dall’altro. Da qui l’insistenza del regista nel mostrarci proteste e scontri, anche di matrice ideologica opposta. McQueen ci dice che il tempo è fatto di strati permeabili gli uni agli altri come gli spazi urbani, eternamente connessi al loro passato. Dunque non è impensabile che ciò che sembrava scomparso possa tornare a tormentare il presente, soprattutto nel momento in cui si finge che l’orrore non sia mai esistito.