Oh, Canada: recensione del film di Paul Schrader presentato a Cannes 2024
Il film con Richard Gere ed Uma Thurman è stato presentato in concorso alla 77ª edizione del Festival di Cannes.
Tra le visionarie follie riversatesi sulla Croisette della 77ª edizione del Festival di Cannes, quello portato da Paul Schrader è sicuramente uno dei film che maggiormente si sforza di mantenere una propria assennatezza; Oh, Canada, presentato in concorso dal consumato cineasta, in compagnia di Richard Gere in uno stato di grazia e dalla solitamente impeccabile Uma Thurman, è l’ennesima conferma qualitativa di un’autorialità definita, che insiste su di alcune ossessionanti tematiche affrontate reiteratamente nel corso della propria carriera e qui riproposte attraverso il racconto di sé di un documentarista politico canadese, tra gli snodi più determinanti del proprio percorso e le scelte che ne hanno orientato la direzione. Il film scritto e diretto dal regista classe 1946, scelto come una delle opere di maggior interesse dell’anno dai selezionatori del festival – e quindi parte della selezione principale – vede inoltre la partecipazione di Jacob Elordi, nei giovani panni dello stesso personaggio interpretato da Gere.
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Oh, Canada: riavvolgere il nastro
Chiamato a raccontarsi e a ripercorrere i passi di una lunga carriera, il documentarista Leonard Fife (Richard Gere) si trova al centro di una stanza buia, col volto logoro esaltato dalle luci di scena, affannato nella costante ricerca sonora e visiva della moglie Emma (Uma Thurman). Il cineasta, giunto ormai agli ultimi istanti della propria vita, piegato da un cancro ormai incurabile, accetta di aprirsi allo sguardo cineastico di due suoi ex studenti – Malcom e Diana – rimastigli devoti come, d’altronde, la stessa moglie, e accompagnati dalla giovane assistente, simbolo di quella vitale infiorescenza ormai dissoltasi per il protagonista.
L’occasione di raccontarsi, nello specifico a partire da quel 1968 che ha significato per lui l’inizio di una nuova esistenza, apertasi con il trasferimento in Canada, proprio nel momento della chiamata alle armi per il Vietnam, si trasforma presto nel disvelamento di carte tenute nascoste, nella definizione di colpe segrete, narrate con arroganza e in maniera confusa, a volte decisa, a volte insicura, vittima di un cognizione di causa latente e della confusione di un pensiero corrotto dal dipanarsi della malattia. Ogni frangente passa da una scelta, ogni scelta è possibile vittima dello sbaglio, della paura, e così Fife si ributta nel suo passato consapevole di non aver nulla da perdere e di voler chiarire tutti, ignaro però di un’opacità avviluppante e da una difficile rielaborazione generale.
Cinema che fa cinema
Arrivato a 50 anni di carriera Schrader sembra volersi raccontare nel racconto di un’anziano regista morente, che assorbe e manifesta tutte le intenzioni e le attenzioni da lui poste sul mondo attraverso la macchina da presa. Un protagonista solo al centro della scena, terrorizzato dall’idea di rimanere solo, di perdersi, di perdere il contatto con la realtà che solamente sua moglie è in grado di dargli; un protagonista solo che rielabora un senso di colpa soffocato dai fasti della propria carriera, che davanti alla morte scopre la paura per il proprio passato più che per il futuro, quel passato ormai nebuloso, che egli sente di star perdendo e di dover raccontare, di immortalarlo sul fascio di luce che cattura ogni increspatura della sua pelle avvizzita.
La pellicola gioca con la memoria, con il ricordo, con uno sfasamento temporale che passa dalla binaria rappresentazione del protagonista nei volti di Richard Gere e Jacob Elordi, continuamente sfalsati anacronisticamente, come i ricordi e le convinzioni dell’autore: disordinate, disorientate. L’unico mezzo è quello filmico: colui che riprende si pone dall’altra parte e, così come in passato aveva aperto l’occhio sul mondo, documentandone momenti indimenticabili, ora apre al mondo sé stesso, nell’onesta rappresentazione della sua malattia, dei suoi vizi e dei suoi difetti, documentando quel ch’egli stesso non è intenzionato a far dimenticare.
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Oh, Canada: valutazione e conclusione
Paul Schrader non aveva certo bisogno di dimostrarci di saper fare cinema ma ha ugualmente voluto porre l’accento sulla propria visione del mondo, che filtra la realtà per mezzo di un obbiettivo d’ingrandimento, da rielaborare successivamente su pellicola. Assistiamo alle riprese di una pellicola prima che possa essere montata, ed ecco che la frammentazione di ricordi che continuamente si alternano alle frustrate invettive di Leonard trova una sua proiezione, una sua riproduzione, come l’opacità di pensiero riflessa da una fotografia pastellata, figlia dei tempi che narra. Se poi si aggiunge la poetica musicale che accompagna e le impeccabili interpretazioni capitanate da Richard Gere, ritrovato da Schrader a oltre 40 anni di distanza da American Gigolò, non si può che applaudire all’estro e al tocco di un vero mastro, che ci ricorda quanto il cinema possa riflettersi e raccontarsi, definendo gli aspetti dell’umano.