Venezia 78 – Old Henry: recensione del film con Tim Blake Nelson
Presentato nella 78ma edizione della Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia, Old Henry è il microwestern di Potsy Ponciroli, una storia di formazione e verità nascoste giocata in equilibrio tra finzione e inganno.
Ambientato nell’Oklahoma del 1906, Old Henry è l’ultimo film di Potsy Ponciroli presentato Fuori Concorso durante la 78ma edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Tra passato e presente, verità storica e finzione, giocato sulla potenza espressiva del non-detto, il film riscrive le coordinate spazio-temporali di un personaggio storico realmente esistito, a cui il regista dona una dignità rinnovata ed un epilogo riverente. Al di là della cornice western, in linea con la tradizione cinematografica nota e amata dal regista, Potsy Ponciroli racconta una storia di formazione, l’eredità di un padre che ha come unica volontà quella di preservare il figlio dagli errori del passato.
Scritto e diretto da Potsy Ponciroli, nel cast spiccano Tim Blake Nelson, Scott Haze, Gavin Lewis, Richard Speight Jr., Max Arciniega, Brad Carter, Trace Adkins e un bravissimo Stephen Dorff.
Tim Blake Nelson interpreta un vecchio contadino in Old Henry, l’ultimo film di Potsy Ponciroli
Henry (Tim Blake Nelson) è un vecchio agricoltore vedovo alle prese con la rigida educazione del figlio Wyatt (Gavin Lewis). Il passato oscuro e taciuto dell’uomo sembra muovere ogni sua azione, indirizzando la formazione di Wyatt ad un temperamento pacifico e al rifiuto della violenza in ogni sua forma. Gli equilibri sono compromessi quando alla porta si presenta Curry (Scott Haze), un uomo misterioso e taciturno che porta con sé una borsa piena di denaro. Seguito da alcuni uomini capeggiati da Ketchum (Stephen Dorff) che vorrebbero arrestarlo e riconsegnare il denaro, Curry si nasconde in casa dell’uomo, dubbioso circa le intenzioni del fuggitivo. L’abilità di Henry nel maneggiare le armi nasconde, però, una storia inedita, mai raccontata, che nell’epilogo rivela, una ad una, le identità dei singoli antagonisti.
Potsy Ponciroli firma un home invasion ambientato nell’Oklahoma del 1906
L’amore per il genere si riconosce dalla devozione che gli si porta quando si decide di omaggiarlo. Potsy Ponciroli realizza un’opera dai confini limitati, una sorta di home invasion coreografata da attori che sembrano gestire lo schermo come fossero su un palcoscenico durante una pièce teatrale.
La fotografia desaturata di John Matysiak indaga i veri volti dietro ai personaggi, scruta e rivela le reali identità prima che siano gli attanti a venire allo scoperto, attraverso inquadrature dominate da cromíe calde e volutamente rassicuranti. Old Henry non ha nulla di originale, proprio per questo riesce a trattenere l’attenzione di chi osserva, cauto, il lento incedere degli eventi. La matrice del genere resta intatta, così come restano saldi i punti cardinali del discorso western che si ripropongono ciclicamente senza sforzo come da manuale: un uomo minaccioso bussa alla porta di un agricoltore e di suo figlio, impegnati a risolvere controversie familiari e tensioni adolescenziali. Un gruppo di nemici, capeggiati da un pericoloso cowboy, arriva al ranch per riscuotere il debito scatenando un epilogo sanguinolento difficile da prevedere.
“Al di là delle sparatorie che lo rendono un action western” – dice il regista – “Old Henry è un film di formazione”, un western familiare o microwestern, come l’ha descritto Tim Blake Nelson, qui attore e produttore. La storia che si racconta, sebbene abbia una collocazione spaziale e temporale ben definita (siamo nell’Oklahoma del 1906), in realtà approfondisce un rapporto umano universale, quello di un padre ed un figlio profondamente differenti che avverano, nel contesto familiare, un conflitto giocato su prospettive di vita agli antipodi. Henry, che conosce la violenza, il dolore, la perdita e il dramma, tenta in ogni modo di proteggere il figlio dagli “errori” commessi in passato, e lo fa con una remissiva, inquieta fermezza che allontana qualsivoglia perdono comunicativo. A convincere è la capacità di Potsy Ponciroli di mantenere costante la tensione nell’atto finale, una sorprendente inversione dei ruoli calibrata da una regia competente, abile nel tradurre in immagini lo sgomento frenetico di tutti gli elementi narrativi che assistono impotenti alla rivelazione.