Omen – L’origine del presagio: recensione film di Arkasha Stevenson
Il franchise di The Omen torna nelle sale internazionali a distanza di diciotto anni dal suo ultimo capitolo, risollevato da uno sguardo autoriale necessariamente femminile che tornando a Donner, ritrova Friedkin, Argento, Scott e Ferrara, dando vita ad un horror che difficilmente ci saremmo aspettati di vedere. Arkasha Stevenson accetta e vince la sfida avanzata a suo tempo da Sean Penn e intrapresa in seguito da Kornél Mundruczó, vincendola senza pari. Solamente andando al cinema capirete quale. Omen – L’origine del presagio è in sala da giovedì 4 aprile, distribuzione a cura di 20th Century Studios Italia
L’avete mai visto un parto in stile Alien? La risposta la si conosce già, è un no, ecco perché di questo film vale davvero la pena parlare. Sacro terrore. Nonostante Frank Miller abbia intitolato così una delle sue graphic novel meno note, ci riferiamo in quest’occasione al protagonismo assoluto del sacro, in relazione ad Omen – L’origine del presagio, osservato con sguardo profondamente maligno, cupo, perseguitante e ambizioso dalla giovane ed esordiente Arkasha Stevenson, che dopo una lunga serie di cortometraggi e collaborazioni registiche a serie televisive di successo tra le quali Legion e Al nuovo gusto di ciliegia, approda al lungometraggio, ereditando il nuovo capitolo di uno dei franchise horror più conosciuti, studiati ed in seguito perduti della storia del cinema, Omen, tornando sulle tracce di un maestro quale è e sempre sarà Richard Donner, cui dobbiamo il primissimo capitolo della saga datato 1976 ed interpretato tra gli altri da Gregory Peck e David Warner.
Arkasha Stevenson risolleva le sorti di uno storico franchise
Come spesso accade a franchise horror forti di un primo capitolo dalla grande fama – quasi sempre irraggiungibile -, la saga di Omen finisce via via per perdersi, trascinata da tre sequel televisivi, una serie televisiva ed un remake piuttosto dimenticabili, che pur supportati da importanti cast, non possiedono in alcun modo la carica ferocemente maligna e cupa del primo capitolo, proprio perché figlio di quel cinema certamente irripetibile a cavallo tra la fine dei ’70 e l’inizio dei ’90, che vede tra i protagonisti nomi come William Friedkin, Robin Hardy, Tobe Hooper, Brian De Palma, Dario Argento, Steven Spielberg e John Carpenter e che molto poco ha a che vedere con gli sviluppi orrorifici propri della cinematografia degli anni a venire.
Ecco perché quando ci si ritrova dinanzi ad un’operazione come Omen – L’origine del presagio, si storce immediatamente il naso, certi ormai di assistere a bislacche e nient’affatto coraggiose proposte di simulazione/nostalgia, in cui di nuovo vi è molto poco – quello che non funziona – e ciò che è riproposto – dunque il già visto – non soltanto perde di vitalità, ma appare estraneo perfino alla sua opera originaria. Con grande sorpresa ed è il caso di dirlo, ammirazione e felicità, possiamo considerare fin da ora Omen – L’origine del presagio di Arkasha Stevenson, non soltanto come il miglior capitolo del franchise – Donner è un maestro, ma la Stevenson possiede straordinarie doti di rilettura e revisionismo –, ma anche uno dei film più coraggiosi, inquietanti, cupi e seducenti del panorama cinematografico horror degli ultimi anni.
L’evidenza di tale maturità registica e conquista filmica la si ha sulla base di sequenze nient’affatto principali, piuttosto secondarie, che una dopo l’altra costruiscono sempre più la capacità, data spesso per dispersa, del cinema horror di riflettere su questioni socio/politiche di prim’ordine e oggi attuali più che mai, come l’esaltazione della femminilità, dunque del corpo, costantemente osservato come oggetto e raramente come arma, e così l’importanza decisiva della fede, non necessariamente religiosa, piuttosto radicata in qualsiasi ideale altro, il ritrovarsi nel trauma, corrispondendosi e ascoltandosi senza mai lasciarsi andare ed il parto, qui definitivamente maligno, eppure, sotterraneamente amorevole.
Omen – L’origine del presagio: valutazione e conclusione
Quello della Stevenson è dunque un prequel capace di cogliere nella sua più totale accezione orrorifica e inevitabilmente drammatica – Donner insiste nel capitolo del ’76 sulla questione della filiazione come trauma e così dei disturbi mentali, senza mai realmente nominarne alcuno, si rincorrono infatti i fantasmi della depressione e della schizofrenia – quanto proposto dal film d’origine, Il presagio (Omen), riproponendone alcuni personaggi iconici come Padre Brennan (Patrick Troughton/Ralph Ineson) e Padre Spiletto (Martin Benson/Anton Alexander), perdendone però la componente spiccatamente thriller e d’indagine, che Donner nemmeno troppo sottilmente trafuga dall’Antonioni di Blow-Up – basti pensare al ruolo della fotografia -, preferendo a quest’ultima una graduale e infernale discesa agli inferi, concentrandosi sui topos di una certa cinematografia horror che molto deve a Dario Argento, Ridley Scott, William Friedkin e Abel Ferrara, capace di rivelare un’impronta autoriale di qui in poi certamente riconoscibile.
Se infatti l’arrivo della giovane ed enigmatica Margaret (Nell Tiger Free, torna abilmente ad inquietarci dopo Servant), americana alla volta di Roma, in qualità di nuovo membro dell’orfanotrofio Vizzardeli, gestito da un clan piuttosto gangsteristico, nonché profondamente ambiguo ed oscuro di suore, capitanato dalla badessa Suor Silvia (Sonia Braga) non può che farci tornare alla memoria, l’arrivo della giovane Susy Benner (Jessica Harper) alla prestigiosa Accademia di danza a Friburgo del leggendario cult di Dario Argento, Suspiria, è nella riflessione sul corpo femminile, dunque sugli istinti più carnali, seducenti e letali di qualsiasi giovane donna che L’angelo della vendetta di Abel Ferrara esplode senza remore, in tutta la sua carica seducente, violenta e irrimediabilmente rabbiosa.
Come se non bastasse, si presentano ben presto suggestioni molto più direttamente orrorifiche, proprie della cinematografia di William Friedkin – riecheggiano continuamente i fantasmi della possessione, delle ombre e del ruolo protettivo eppure temibile, tanto del demonio, quanto dell’uomo di fede, protagonisti in egual misura di L’esorcista – e così di Ridley Scott, poiché senza giungere ad alcuno spoiler, Arkasha Stevenson ci conduce ad una sua personalissima versione di un parto in stile Alien, mostrata in quella che più probabilmente è la sequenza meglio riuscita e realmente memorabile di Omen – L’origine del presagio e che molti spettatori potrebbero trovare addirittura complessa da osservare, incerti se coprirsi, oppure voyeuristicamente continuare a guardare, tra turbamento e divertimento orrorifico. Era dai tempi di Lupo Solitario di Sean Penn e del ben più recente Pieces of a Woman di Kornél Mundruczó che non assistevamo integralmente e brutalmente ad un parto di questa portata.
Sono diversi i meriti di questo film, tra i quali, la messa in luce di due interpreti del cinema nostrano che in una produzione consistente come questa, alla quale non possiamo far altro che augurare grandi fortune sia di botteghino, che di critica, dimostrano di possedere capacità interpretative degne di nota e che nulla hanno da invidiare a grandi e piccoli nomi dello scenario hollywoodiano, si tratta di Nicole Sorace e Andrea Arcangeli, i quali vestono qui rispettivamente i panni disperati e profondamente turbati di Carlita e quelli del seducente Paolo, colui che sveste e definitivamente osserva Margaret per ciò che è. Forse il male? Oppure qualcosa di più, o meglio, di diverso? Non resta che andare al cinema, poiché scoprirlo è un vero piacere, oltreché una corsa folle, adrenalinica e ferocemente inquietante tra i dogmi della fede e l’oscurità del sacro.
Omen – L’origine del presagio è in sala a partire da giovedì 4 aprile 2024, distribuzione a cura di 20th Century Studios Italia.