Only The Animals – Storie di spiriti amanti: recensione del film di Dominik Moll
Il noir spirituale di Dominik Moll, che indaga sulle ragioni della solitudine
Only The Animals – Storie di spiriti amanti è il sesto lungometraggio di Dominik Moll, regista di origine tedesca, ma francese d’adozione, noto soprattutto per Harry, un amico vero (2000). Il film, tratto dal romanzo Seules les Bêtes di Colin Niel, fu girato nel 2019 e presentato a Venezia alle “Giornate degli Autori”. È uscito finalmente in sala il 12 maggio 2022, distribuito da Parthénos Distribuzione.
La sceneggiatura, scritta da Moll e Gilles Marchand, ruota attorno al mistero dell’omicidio di Evelyne Ducat (Valeria Bruni Tedeschi), donna altoborghese, scomparsa durante una bufera di neve nell’altopiano montuoso del Causse Méjean. La struttura segue il modello tarantiniano di Pulp Fiction (1994), che suddivide una storia in tanti frammenti quanti sono i protagonisti del racconto e li incastra, attraverso flashback e flashforward, in un mosaico spazio-temporale che assume senso compiuto solo alla fine. Il film è infatti diviso in capitoli, ognuno dei quali ruota attorno a un personaggio. Alice (Laure Calamy), ci presenta un’assistente sociale, desiderosa di amare ed essere amata. Joseph (Damien Bonnard) racconta la storia di un uomo emarginato, che vive in una fattoria sperduta, preda dei fantasmi della sua infanzia. Marion (Nadia Tereszkiewicz) è la storia di una giovane cameriera, che da Sète, finisce, seguendo il sogno di un amore impossibile, sull’altopiano del Causse. Michel (Denis Ménochet), si concentra sul marito di Alice, un uomo alienato che, sentendosi ormai distante dalla moglie, cade vittima del suo stesso desiderio di affetto. Infine l’ultimo segmento del film, Armand (Guy Roger «Bibisse» N’Drin), è ambientato in Costa d’Avorio, ad Abidjan ed è la storia di un giovane brouteur, un truffatore informatico, che fingendosi, on line, un’attraente ragazza francese, adesca uomini occidentali soli a cui estorce denaro. Ogni personaggio è in qualche maniera legato agli altri e al mistero della morte di Evelyne. Ma il nucleo narrativo del film non è tanto la detection incentrata sull’omicidio, quanto quella delle ragioni della solitudine umana, che trova un correlativo oggettivo nell’ambiente naturale.
Un incontro/scontro fra due realtà sociali e umane agli antipodi
L’intera messa in scena dei quattro capitoli francesi è pensata infatti per dare risalto ai paesaggi entro cui si muovono i protagonisti, ovvero le campagne e i boschi perennemente innevati del Causse. La fotografia dipinge campi lunghi costruiti su cromatismi di gelidi blu e bianchi, in contrasto con sparute macchie ocra e marrone. Nel riecheggiare i paesaggisti della tradizione fiamminga come Brughel e Van Valckenborch, Moll si ricollega a una precisa immagine tradizionale del paesaggio dell’Europa occidentale, facendo dell’altopiano del Causse una metafora per l’Occidente tutto. Laddove però le vedute di quei pittori, quindi quell’Occidente, erano spesso popolate da un gran numero di figure umane, qui i singoli protagonisti sono quasi sempre soli, sperduti in un mondo di neve, che simboleggia il gelo emotivo che li attanaglia e ne copre il desiderio di amore. In tale contesto, le rare case e fattorie finiscono per assomigliare a delle prigioni, grazie all’uso di claustrofobiche inquadrature angolate e di un moderato procedimento di dirty framing. Dentro queste prigioni, a fare da controcanto alla freddezza umana, troviamo gli animali. Cani, mucche, capre sono le uniche creature disposte a dare e ricevere affetto, senza mediazione. Il film non a caso si apre con un dettaglio dell’occhio di una capra: le bestie del titolo in virtù della loro purezza affettiva, sono i soli testimoni in grado di comprendere la vicenda che si dipana fra le vite dei vari personaggi.
Ma Moll non si limita a indagare l’animo in cancrena di un Occidente incapace ormai di amare e, attraverso il quinto segmento, costruisce una metafora politica legata all’emergere delle soggettività postcolonialiste. Seguendo infatti una tradizione sempre più diffusa nel cinema europeo (si pensi per esempio a Paradise: Love, 2013, di Seidl) il regista mostra come attraverso l’interconnessione informatica, questa debolezza emotiva dell’Occidente può diventare uno strumento di rivalsa economica nelle mani di popoli che devono la loro povertà proprio alle politiche coloniali europee.
Un noir spirituale che indaga sulle ragioni della solitudine
Il segmento di Armand infatti descrive un mondo in totale contrapposizione a quello dipinto in precedenza. La città di Abidjan è inquadrata secondo modalità fotoreportagistiche, con accentuato utilizzo di un color grading caldo ma smorto e uso espressivo di tonalità pastello, nello stile di fotografi contemporanei africani come Lamrabat o Tesa. Mentre le peregrinazioni di Armand sono riprese attraverso un reiterato uso della macchina a spalla che lo pedina da dietro, un po’ alla maniera dei fratelli Dardenne. La vicenda del giovane viene così immersa, in contrasto con l’ambiente naturale dei segmenti precedenti, in un ambiente cittadino affollato di persone, dove gli animali vagano liberi, in simbiosi con l’elemento umano. Qui non esistono individui isolati, ma soggettività indivisibili dalla propria comunità.
Nella visione del regista, se gli occidentali sono monadi in cerca di affetto, gli africani sono un popolo che cerca rivalsa. Persino la storia di Armand, che sembrerebbe essere una storia individuale di (tentata) emancipazione dalla povertà, è costantemente ricondotta all’elemento collettivo, rappresentato dalla compagnia di amici da cui è sempre circondato e dalla cultura magica cui egli si rivolge, attraverso la figura di Papa Sanou (Christian Ezan).
Questo scontro/incontro fra due realtà agli antipodi, legate dalla tecnologia e da una misteriosa forza del destino, per quanto ben inscenato ed esteticamente valido, purtroppo risulta un po’ troppo didascalico nel finale e rischia di essere l’ennesima rappresentazione dell’altro non-occidentale, così come la cultura europea ama immaginarselo: non più uomo reale ma ricettacolo di contraddizioni socioeconomiche, araldo di una spiritualità primitiva e figura metaforica di una moderata lotta di classe, risolta, qui, in parabola sui rischi del perdersi in un mondo sempre più virtuale.