Venezia 75 – Opera senza autore: recensione del film
Una pietra miliare della cinematografia tedesca. Opera Senza Autore può senz'altro rivendicare potenza espressiva, poesia, coerenza e bellezza di ogni ambito.
Di solito nel mestiere di critico la professionalità porta ad avere (giustamente) un certa distanza dalla pellicola, smussarne l’impatto personale da essa prodotto, secondo un iter talvolta cinico, se si vuole, ma inevitabile di chi guarda con occhio “critico” un’infinità di film, e col tempo mette da parte la fruizione personale per dare a chi legge, quanto più possibile per incoraggiare o scoraggiare la fruizione e per capire insieme che cosa porti con sé il film in questione. Sempre con la giusta distanza, la giusta freddezza.
Ogni tanto però capita che un film abbatta le difese emotive create dal critico, ne faccia affondare il lato maturo acquisito con tanta fatica, ed egli si trovi spettatore come gli altri, con buona pace della professionalità, distanza e compagnia bella. Questo è quanto accade con Opera Senza Autore (Werk ohne Autor).
Perché? Perché il regista Florian Henckel von Donnersmarck con questo suo nuovo film ha semplicemente calato un asso da novanta in una rassegna, quella di questa Venezia 2018, anche quest’anno di alto livello ma dove a quanto pare non era ancora arrivato quel titolo, quell’opera, in grado di farle spiccare il volo, di legarsi ad essa in modo imprescindibile.
Perché con buona pace del discusso Suspiria, di At Eternity’s Gate, di The First Man o Ballad of Buster Scruggs, se questo Festival del Lido sarà ricordato dal pubblico sarà per Opera Senza Autore. O almeno così dovrebbe essere in un mondo perfetto.
Opera Senza Autore: un film che sa arrivare dritto al cuore dello spettatore
Donnesmark firma la sceneggiatura di quello che possiamo definire forse il suo film più personale, più viscerale, forse tecnicamente non al livello dello straordinario Le Vite degli Altri, legato anch’esso ad Opera Senza Autore dal voler parlare del periodo storico più tragico e problematico della Germania, di quel passaggio dal regime nazista a quello comunista che anche in questo film sono resi alla perfezione, nella loro comune aberrante essenza.
Protagonista è il giovane Kurt Barnert (Tom Schilling) che cresce in una cortese famiglia della Germania orientale, costretta a fare i conti con il terrificante regime hitleriano e le sue folli idee sulla razza, la salute mentale e la selezione genetica. La dittatura e il secondo conflitto mondiale costeranno carissimi alla famiglia di Kurt che, cresciuto e divenuto un giovane aspirante pittore, cercherà di dare libero sfogo alla sua vocazione a qualsiasi costo.
Intanto nella sua vita entra la bella e sensibile Elisabeth (Paula Beer), figlia dell’arrogante, manipolatore e oscuro Professor Carl Seeband (Sebastian Koch) che Kurt ignora essere coinvolto in un episodio decisivo e terribile della sua infanzia.
Opera Senza Autore è la storia di Kurt (ispirato al grande artista tedesco Gerhard Ritcher), del suo paese ridotto in cenere e poi rinato dalla stessa, dei tanti personaggi, volti, e soprattutto dell’arte, di quell’arte che guida per mano un iter narrativo complesso e straordinario in ogni aspetto.
Opera Senza Autore e la potenza dell’arte che riesce a permeare tutto
Il cast scelto con cura da Donnesmarck si muove dentro un racconto dove ognuno si fa portatore di significati storici marcati e palesi. Un bravissimo Tom Schilling, già apprezzato in Suite Francaise, Woman in Gold e nell’interessante serie Generation War, è semplicemente perfetto nel far portare sulle spalle del suo protagonista i sogni e la volontà di quella Germania in cenere, per metà soggiogata al comunismo sovietico, che dovette costruire da zero un paese, ritrovare un senso, un significato, un posto.
Lo fece anche grazie a quell’arte, che proprio dalla Germania del dopoguerra ha avuto forse i più importanti innovatori e sperimentatori in ogni ambito. E non per caso.
Paula Beer fa della sua delicata ma determinata Ellie Seeband il simbolo della rinascita e dell’emancipazione della donna tedesca, che sotto il regime hitleriano era poco più di una fattrice schiava, mentre Saskia Rosendahl assurge con il personaggio di Elisabeth, a simbolo del martirio di coloro i quali furono (e sono tutt’oggi) perseguitati ed eliminati per l’essere spiriti liberi, diversi e fuori dalle convenzioni.
Su tutto e tutti però domina, a dispetto della sua natura mefistofelica, perfida e opprimente, il Professor Carl Seeband di un Sebastian Koch a dir poco monumentale.
Algido, spietato, senza pietà, codardo nel profondo dietro la maschera di mascolina autorità di cui si ammanta, si aggira portando con sé lo spettro dei tanti, troppi nazisti che la fecero franca, che caddero in piedi. Difficile trovare un personaggio tanto malvagio e facilmente odiabile dal pubblico, difficile anche trovare un attore capace di coniugare in sé tutto il peggio del peggio dell’estremismo conformista e opportunista che ne fa in certi momenti quasi il protagonista di questo dramma di un cinema d’altri tempi.
Koch calibra ogni istante, ogni espressione, ogni parola per creare un alone di raggelante cupidigia esistenziale, plasmando un cattivo ad un tempo familiare e assieme quasi irreale nella sua perfezione machiavellica.
Il suo Carl Seeband non ha la follia dell’Amon Goth di Fiennes, o la depravata lussuria del Franz Bietrich di Thomas Kretschmann, ma è più umano, più quotidiano, più universale, e per diversi momenti quasi ruba la scena al protagonista.
Opera Senza Autore: una lunghezza (3 ore) che non è mai prolissa!
Analizzando Opera Senza Autore bisogna però essere chiari su un punto: è cinema d’altri tempi, è cinema che abbraccia con la sua lunga durata (3 ore belle piene) la ribelle condensazione del significato a cui il cinema, un certo cinema non commerciale, è soggetto sovente dai meccanismi della produzione. Ma del resto anche Leone con il suo eterno C’era Una Volta in America pagò uno scotto su tale questione.
Donnersmarck invece rivendica la lunghezza che non è mai prolissità, l’indipendenza della propria visione contro l’egoismo del pubblico moderno, la libertà di affrontare con questo film più tematiche, numerosi dilemmi e di creare un racconto nel racconto, dove l’arte è protagonista.
Un’arte che è presentata anche dal punto di vista storico, che funge a chiave di lettura per meglio comprendere quanto questi due mostri, il nazismo e il comunismo, siano stati due lati dello stesso tentacolo predatore di vite, di coscienze, di libertà.
L’arte libera Kurt come liberava Elisabeth, come ha liberato lo strano ma saggio Professor Van Verten (Oliver Masucci) che non fa che rivendicarne l’essere strumento ed essenza di un dialogo interiore, di un’espressione di personalità e coscienza..
“Sii te stesso” spiega a Kurt. L’arte ci renderà liberi.
Risulta incredibile quanto, in ultima analisi, Opera Senza Autore riesca ad affrontare, confrontare e sviluppare in un continuo interscambio, tematiche ed elementi così vari, così apparentemente complicati ma lo faccia in modo eloquente, accessibile, senza mai appesantire, mai annoiare, facendo scorrere tre ore di cinema quasi senza fatica.
Straordinario nella fotografia del maestro Deschanel, con un montaggio di Patricia Rommel che esalta la colonna sonora struggente di Max Ritcher, Opera Senza Autore può senz’altro rivendicare una potenza espressiva, una poesia, una coerenza e bellezza di ogni ambito della cinematografia, che lo rendono pietra miliare della cinematografia tedesca ed europee contemporanee.
Alla fin fine, dopo tre ore, l’istinto è quello di rivederlo per perdersi in questo racconto di vita, sofferenza, felicità e incertezza di enorme fattura e passione.
Opera senza autore è al cinema dal 4 ottobre con 01 Distribution.