Roma FF18 – Palazzina Laf: recensione del film di Michele Riondino
Un esordio alla regia riuscito e sentito, quello di Michele Riondino, che con Palazzina Laf (in cui è anche attore e sceneggiatore) confeziona un film che è cronaca, intrattenimento e commedia sociale contemporanea.
Presentato nella sezione Grand Public della Festa del Cinema di Roma 2023, Palazzina Laf di Michele Riondino trascende le dinamiche meccanicistiche e semplicistiche del film di denuncia per assestarsi molto più graniticamente nella dimensione dell’affresco sociale e politico, fino a sconfinare nella psiche stessa dell’italiano medio, che qui è filtro, paragone e mezzo di trasmissione di un messaggio così potente da abbandonare la singola storia vera a cui è legata la narrazione per farsi racconto certosino, sbarazzino e incalzante di un’Italia sempre più ingiusta, debole e umanamente ignobile.
Il primo caso di mobbing e l’Ilva di Taranto in Palazzina Laf
Un esordio alla regia sentito fino al midollo, quello di Riondino, che in Palazzina Laf racconta uno spaccato della sua Taranto, ovvero ciò che accadde ad alcuni impiegati dell’ILVA nel 1997.
Lo fa dopo aver vagliato le interviste di ex dipendenti ed ex confinati, nonché gli stessi documenti del processo che segnò una svolta epocale nel sistema giuridico legato al mondo del lavoro, facendoci familiarizzare per la prima volta col reato di mobbing. Lo fa, altresì, avvalendosi in fase di sceneggiatura del supporto di Michele Braucci e di quello del giornalista e scrittore Alessandro Leogrande, venuto a mancare durante la fase di lavorazione del film (motivo per cui il regista ha deciso di omaggiarlo nei titoli di coda insieme a Luciano Santopietro).
Calandosi lui stesso nei panni del protagonista Caterino Lamanna, uomo semplice e rude, Riondino disegna sul grande schermo la fisionomia folle e spietata dell’industria italiana.
Sarebbe stato scontato avviare un resoconto cronachistico, col bene e il male spiattellati in maniera netta dinnanzi ai nostri occhi, ma no! L’autore pugliese sceglie di storpiare la moralità, usando l’esistenza del protagonista come setaccio per edulcorare naturalmente l’etica e l’importanza del lavoro. Caterino è infatti, né più né meno, quello che Leonardo Sciascia chiamerebbe “un ominicchio”; uno che pensa di essere furbo, di poter aggirare il sistema a suo favore e invece, come è logico, alla fine resta anche lui schiacciato dal sistema, per di più dalla parte sbagliata.
Michele Riondino regredisce nei panni del suo protagonista, trasmettendo allo spettatore tutta quell’ingenua ignoranza che rende ciechi davanti agli abusi. Basta davvero poco a un capo come Giancarlo Basile (interpretato da un Elio Germano inimitabilmente beffardo, subdolo e senza scrupoli) per convincere Caterino a fare la spia, pedinando e facendo supposizioni sui colleghi, sui confinati della Palazzina Laf: un reparto lager in cui il protagonista sceglie liberamente di andare, vedendolo come un vantaggio (chi non vorrebbe essere pagato per non fare nulla?).
Se nella sua mentalità di ominicchio non si rende conto della brutalità di questa azione, gli impiegati altamente qualificati che sono stati confinati lì e che vengono ricattati al fine di accettare il demansionamento si ribellano con tutta la forza che hanno in corpo pur di portare avanti il sacrosanto diritto al lavoro (per cui l’autore non manca di citare nei titoli di coda anche l’articolo 4 della Costituzione: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”).
Un cast incandescente, capeggiato da Riondino
Sovviene alla mente una frase della performer Marina Abramović: “La cosa più difficile da fare qualche volta è non fare nulla, perché per non fare nulla ci devi mettere tutto te stesso”.
Difficilmente si riesce a comprendere, nel marasma delle nostre esistenze spesso fin troppo ingolfate di impegni, la benedizione di avere un impiego, uno scopo che ci porti faticosamente e orgogliosamente e a fine giornata.
Vedendo Palazzina Laf tutta questa disperazione trapela ferocemente nella follia di un ufficio fatiscente, molto più simile a un manicomio. Chi prega, chi gioca a mosca cieca, chi finge di parlare al telefono, chi si allena con pesi costruiti alla meno peggio, chi fa proclami per invogliare alla ribellione. Non un ufficio, ma un campo di concentramento in cui si mina la stabilità psichica e si umiliano i settantanove lavoratori che non accettano di fare gli operai piuttosto che gli impiegati. Per portare sullo schermo questa tragedia contemporanea Riondino si affida alle interpretazioni incandescenti di Vanessa Scalera (che più di tutti gli altri riesce a lasciare il segno), Domenico Fortunato, Gianni D’Addario, Michele Sinisi, Fulvio Pepe, Marina Limosani.
La regia di Michele Riondino intrappola la fatiscenza umana, mentre la musica è presenza, è evasione
Posto dietro la macchina da presa Michele Riondino riesce alla perfezione a intrappolare la fatiscenza della sua Terra e quella dei cittadini inconsapevoli dei propri diritti. Lo sguardo si dilegua lungo le strade poco asfaltate, sbircia tra le porte semiaperte con la percezione di avere tutto sotto controllo, ma il tutto di Caterino è un pugno di mosche!
Supportato dalla fotografia di Claudio Cofrancesco e dal montaggio di Julien Panzarasa il lungometraggio ci incastra nella dinamicità confortevole di una narrazione per immagini piuttosto lineare e di una luce non accecante ma perenne, atta a incoraggiare la sensazione di sentirci accolti là dove il crimine incombe.
La musica in Palazzina Laf non è accompagnamento ma personaggio a sé stante, che fa da contraltare alla disperazione. Caratterizzata da chitarre strimpellanti e accensioni sonore, la colonna sonora composta da Teho Teardo si compone di tasselli di precarietà entusiasmante in cui brani come The Bad Touch dei Bloodhound Gang, Sogno l’amore di Andrea Laszlo De Simone e Una lacrima sulla toma di mia madre di Banda Ionica fanno la loro incursione, fino a esplodere nella canzone originale composta da Diodato e intitolata La mia terra, che ci costringe a non staccarci dalla poltrona fino all’ultimo secondo del film.
Palazzina Laf: valutazione e conclusione
Avviandoci verso la conclusione, Palazzina Laf è un esordio alla regia riuscitissimo. Un film in cui il protagonista non è un eroe né un vero e proprio perdente, poiché per essere tali bisogna anche sentirsi dei falliti, ma Caterino no: secondo la sua logica ha fatto la cosa giusta, ha tratto dei benefici personali a scapito della comunità e il regista ci mostra, senza la necessità di spiegarcelo nel dettaglio, come adagio anche il suo piccolo orticello vada in malora, come non ci possa essere benessere privato quando tutto ciò che sta a limite con i nostri confini è infermo.
Un’opera che è cronaca, intrattenimento e commedia sociale contemporanea; che ci plasma come cittadini scarnificando uno degli articoli forse recentemente tra i più dibattuti della nostra Costituzione.
Il film, che vede nel cast anche Eva Cela, Anna Ferruzzo e Paolo Pierobon, si avvale di Saverio di Biagio come aiuto regia, della scenografia di Sabrina Balestra, dei costumi di Roberta Vecchi e Francesca Vecchi; Eva Nestori e Claudia Pallotti si sono occupate rispettivamente di trucco e parrucco. Vanno citati poi anche Denny De Angelis (fonico di presa diretta), Dario Ceruti (casting), Lello Petrone (organizzatore generale), Laura Biagiotti (segretaria di edizione), i produttori delegati Marco Camilli, Margherita Chiti e Luigi Pinto, il produttore esecutivo Valerio Pasucci.
Prodotto da Palomar, Bravo e Bim Distribuzione con Rai Cinema, Palazzina Laf è al cinema dal 30 novembre 2023.