Parsifal: recensione del film di Marco Filiberti
Parsifal, opera cinematografica di Marco Filiberti, mescola cinema, teatro e musica per una riflessione esistenziale e spirituale di anomala profondità.
Preferisce chiamare il suo Parsifal opera cinematografica, non film, Marco Filiberti. E la cosa va presa sul serio. Nelle sale italiane dal 23 settembre 2021, distribuisce 30 Holding. Un lavoro complesso e stratificato, che gioca sfrontatamente con le possibilità offerte dalla narrazione cinematografica, dal teatro filmato e dall’opera musicale. Prende in prestito da molti, resituisce in forma ibrida e sperimentale, lontana (tanto) da qualsiasi pretesa di convenzionalità a proposito dei tempi, dei contenuti e dell’estetica del cinema contemporaneo.
Marco Filiberti ha certo l’ossessione del vuoto, drammaturgo, regista, scrittore e quant’altro. Spiega di guardare al pubblico nella sua singolarità, non pensa mai alla massa. La sua opera richiede al singolo spettatore una dose notevole di pazienza e la disponibilità ad abbandonarsi ai ritmi e alle inflessioni di un gioco intellettuale tanto misterioso quanto frustrante, a volte. Non assomigliare per niente a ciò che ci sta accanto, porta vantaggi e limiti.
Parsifal è un’opera che viaggia nel tempo e nello spazio
Le radici di Parsifal affondano nell’omonimo mito cristiano, fede ed epicità, che l’arte ha inseguito e riprodotto per secoli, forse Wagner e il suo dramma in musica costituiscono il riferimento principe. Questa incarnazione della storia comincia in un misterioso porto del Nord, mondo desolato e restituito con eleganza un po’ malinconica, va detto, dalla splendida fotografia di Marco Toscano. Una barca ormeggiata, il Dedalus, due marinai. Palamède (Giovanni De Giorgi) e Cador (Luca Tanganelli), che senza sapere bene il perché si imbattono in Parsifal (Matteo Munari), giovane ingenuo e toccato dalla grazia dell’assenza di memoria. Dove va, da dove viene, nessuno lo sa. Scioglie i nodi della nave, gesto pratico dagli importanti risvolti simbolici, mentre nel frattempo arrivano anche due prostitute, Elsa (Zoe Zolferino) e Senta (Elena Crucianelli).
L’unica che sembra conoscere qualcosa del curioso visitatore è Kundry (Diletta Masetti), carismatica, affascinante e tormentata. Parsifal gira e gira nel tempo e nello spazio e l’opera lo segue: il porto ai primi del ‘900, la taverna bordello di Kundry, l’epoca è di poco antecedente alla Seconda Guerra Mondiale. Le rovine medievali in cui trova rifugio Amfortas (Marco Filiberti), lacerato da una ferita che non si rimargina e da visioni apocalittiche. Consumato dal desiderio che non può essere soppresso, e dal dolore che ne è conseguenza. Parsifal ha del lavoro da fare con lui.
Va ricordato il contributo della scenografa Livia Borgognoni, la suggestione degli sfondi della campagna toscana che ha ospitato le riprese in esterni, l’ambizione e la ricchezza degli spunti musicali. Estratti da Wagner, Čajkovskij e classici del jazz. Questo per rimarcare, una volta di più, che dal punto di vista della struttura, dei significati, della disposizione cronologica degli avvenimenti, della qualità e dell’impostazione della recitazione, Parsifal vola alto e richiede molto a chi gli si avvicina. Con quali esiti?
L’apocalisse di Marco Filiberti, opera cinematografica e non film, non nasconde la possibilità di una rinascita
L’umore di Marco Filiberti è apocalittico, ma non rinuncia alla speranza. Libertà e desiderio, libertà dal desiderio, ma la promessa di Parsifal, che nel mito è il cavaliere che riesce a ritrovare il Sacro Graal, è la rinascita di una umanità nuova, illuminata. L’ambizione dell’opera si misura nella qualità della messa in scena, di cui si è già parlato. Nella presenza fisica e carismatica del cast. Il lavoro di Filiberti sugli attori è totale, e la componente coreografica (curata da Emanuele Burrafato) ha il suo peso. Non solo i toni, gli accenti, le intonazioni e l’espressività ne scrivono la storia, anche il più piccolo movimento dei corpi racconta e custodisce un segreto del film.
Parsifal si fa forte della sua diversità, del rifiuto della convenzione e dell’abitudine. Una condizione di alterità, questa, che non si può mettere in discussione. Il problema della definizione ha il suo senso: opera cinematografica e non film, dal momento che si serve del mezzo cinema ma lo supera, ammiccando al teatro e all’opera musicale. Tutto questo nel tentativo di trovare un linguaggio capace di sostenere la complessità del suo edificio concettuale. Non è facile.
Il problema dell’opera è la diversità dell’opera, il cui mistero spesso e volentieri prende il sopravvento sulla riflessione filosofica – esistenziale – spirituale. La narrazione decomposta, il tempo del racconto ballerino e fuori dagli schemi, allontanano da una comprensione piena e intuitiva, ma questo è deliberato. Rischiano tuttavia di fagocitare l’attenzione diventando tutto il film, nascondendo qualunque altra cosa. Per il resto, la confezione e il coraggio dell’idea di partenza sono ammirevoli.