Parthenope: la recensione del nuovo film di Paolo Sorrentino visto a Cannes 77
La nostra recensione di Parthenope, l'atteso nuovo film di Paolo Sorrentino visto in anteprima al Festival di Cannes.
Volendo trovare una continuità (scherzosa) con il film precedente di Paolo Sorrentino, questo potrebbe chiamarsi È stata la mano di Tesorone, e invece la mano stavolta è più che mai del regista napoletano, e il racconto di Parthenope – pur trattandosi di una donna e della prima volta che lui rende una donna protagonista – sembra essere uno dei più autobiografici, anche se in maniera libera e non dichiarata, e il più emotivo; sicuramente il più emozionante, il più maturo, un’opera nel complesso equilibrata nella quale riescono però a convivere tutte le ossessioni e le esuberanze del suo autore.
Parthenope: Napoli tra l’irrilevante e il decisivo
Quello di Sorrentino è, in un certo senso, un cinema che viaggia da immobile, un po’ come l’imponente carrozza che viene regalata a Parthenope in occasione della sua venuta al mondo. Gli sguardi dei personaggi, le inquadrature fisse larghissime e poi strettissime, i soffi, i respiri e i sospiri, i voli e le cadute, i baci, le carezze e gli impeti di violenza, sono tutti elementi che fermano il tempo e (si) (s)piegano in contemplazione, sublimati qui dal suono ipnotico e quasi “assente” delle onde del mare e dalla fotografia sognante e vivida di Daria D’Antonio.
Un cinema immobile, in attesa, in perenne sosta – stando alle parole che ci ha rivelato Sorrentino in conferenza sulla sua visione di Napoli, faremmo meglio a dire “vacanza”? – tra l’irrilevante e il decisivo, dualismo ambivalente che la protagonista stessa rimprovera al luogo dove vive di non saper attraversare con la giusta misura, non riuscendo perciò a valorizzarne le differenze. Napoli è così, una città “triste e frivola, viva e sola”, libera e soffocante, ma lo è in fondo anche il cinema di Sorrentino. Una lunga, visionaria, fervida contemplazione per (non) pensare “a tutto il resto”.
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L’ovvio, l’indicibile e il sorprendente
Un’altra gravitazione costante dell’Opera sorrentiniana e nello specifico di questo film è quella tra l’ovvio e il sorprendente, tra il mistero e la truffa – troviamo qui una scultura presentata in maniera altisonante ma che in realtà potrebbe essere di cattivo gusto, inevitabile eco di quella esibizione esibita ne La Grande Bellezza -, e nonostante il motore emozionale della pellicola sia identificabile nelle note di Era già tutto previsto di Cocciante – che accompagnano alcune delle migliori sequenze dell’intera filmografia di Sorrentino – Parthenope riesce a rendere (in)dicibile la verità e a (far) vivere la dimensione del mistero e della sorpresa.
E allora (non) c’è da sorprendersi quando, al termine di una lunga parentesi esoterica, misterica – o truffaldina? – e avvolgente sul miracolo di San Gennaro, questo avvenga proprio durante una masturbazione in chiesa, poiché la ricerca e la disposizione verso il Sacro passano sempre per il gioco e per l’abbandono – anche del non prendere sul serio se stessi e quindi Dio; o quando lo struggente Marotta interpretato da Silvio Orlando – lui e Gary Oldman dominano la scena con indomabile potenza – apre la porta alla ragazza per mostrarle il figlio malato, un essere gigante e quasi fantascientifico composto di acqua e sale, come il mare; o quando Parthenope sceglie di proseguire da sola. Era già tutto previsto, anche l’uomo che (non) sceglievi.
Valutazioni e conclusione
Parthenope è un film esuberante e magnetico, il più sincero di Paolo Sorrentino. C’è tutto il repertorio esistenziale e oltre: l’incanto della giovinezza in struggenti e memorabili sequenze accompagnate da Riccardo Cocciante, il vuoto della solitudine e il mistero vertiginoso dei nuovi incontri, il filo teso tra slancio vitale e fatale caduta, la disillusione, lo scudetto del Napoli, l’esoterismo e persino la fantascienza. È il film più libero di un autore che non si preoccupa di sbagliare e regala in maniera autentica un importante pezzo di cinema.