Partisan: recensione
Lontano da occhi indiscreti, in un harem personale con donne, bambini, regole e povertà, Gregori (Vincent Cassel) è la figura patriarcale di una comunità da lui stesso creata. Con mano ferma, ma dispensatore di un ambiguo affetto, educa come figli i bambini trovati, insegnandogli poi ad essere criminali. L’orgoglio più grande per quell’uomo che applica e impartisce l’odio è l’undicenne Alexander (Jeremy Chabriel), occhi intelligenti e mente acuta, che presto capirà che forse non è il mondo là fuori ad essere crudele ed il male è molto più vicino di quanto avrebbe potuto immaginare.
Il fenomeno dei “sicarios” colombiani, i bambini-assassini che hanno mosso l’opinione pubblica per ragioni economiche e socio-politiche, è ora raccontato con un’umanità quasi disarmante dal giovane talento del cinema Ariel Kleiman, una fiaba dalle tinte scure scritta con la sua co-sceneggiatrice Sarah Cyngler. Il film Partisan è la follia di un uomo che vuole ammaestrare cuori puri mettendo nelle loro mani una pistola, la quotidianità di un gruppo di emarginati che vive distante da quel mondo che poco è riuscito a donare, le lacrime di un bambino che laveranno via il peccato. In una vera e propria comune tra tavole imbandite, muri disegnati e zaini riempiti da colori ed armi, piccole anime vengono macchiate da crimini di sangue per sopravvivere, guidati da quel dettame che professa il colpire prima di essere colpiti. Da bambino curioso Alexander rifiuta di credere all’assolutezza delle parole di Gregori: decide di interrogarsi, di guardare il mondo, di affrontare l’oscurità per la ricerca di una qualsiasi altra possibilità da conquistare. Rubata l’innocenza al gruppo di ragazzini privati della loro infanzia, Gregori è padre, padrone e protettore, capofamiglia rispettato ed amato, un ingannatore che con austerità nascosta legifera e intimorisce ed elargisce amore per comandare e fermezza per disciplinare.
Vincent Cassel con il suo profilo spigoloso, gli occhi penetranti e la sua figura grave e al tempo stesso severa, dà in Partisan un’interpretazione convincente e scioccante. Sapendo giocare con i sentimenti e i cambi di atmosfera, riesce a confonde e turbare prima i personaggi poi gli spettatori: da amorevole genitore a spietato assassino, è in continuo equilibrio su una linea sottile che non sai mai quando sarà oltrepassata. Vicino al piccolo Jeremy Chabriel, da subito scelto come protagonista dal regista australiano, creano sullo schermo un’alchimia impressionante, tenendosi testa l’un l’altro in un tacito scontro tra personalità e visioni del mondo.
Al primo lungometraggio, dopo i due acclamati corti Young Love (2009) e Deeper Than Yesterday (2010) che gli hanno permesso di affacciarsi sul mondo del grande schermo, Ariel Kleiman mostra una sensibilità non indifferente. Puntato l’occhio sulla presa di posizione di un uomo in continua avversità con ciò che lo circonda ed incita giovani creature al risentimento costante, ritrae con la macchina da presa i momenti di una vita che difficilmente vedrà la luce di una nuova strada da poter percorrere, ma sa promettere anche che mai smetterà di lottare per il buono che ancora, fortunatamente, qualcuno riesce a vedere. Una storia all’insegna quasi del surreale che saprà colpire dritta alla bocca dello stomaco.