Pathfinder – La leggenda del guerriero vichingo: recensione
Pathfinder – La leggenda del guerriero vichingo vorrebbe essere un film epico ma è solo un piatto revenge-movie. Una storia senza coinvolgimento, senza alcun tentativo di pathos, che lascia indifferente lo spettatore, che resta schiacciato nel morso della noia
Pathfinder – La leggenda del guerriero vichingo è una di quelle produzioni mediocri (per sceneggiatura, prove attoriali, budget) che, al pari di molte altre, presentano allo spettatore medio prodotti indecenti, fuori contesto, improbabili; film che esautorano di tutto il suo fascino il genere storico, che di per sé, se ben confezionato, sa essere genere filmico davvero magnifico.
È il caso di Pathfinder – La leggenda del guerriero vichingo, un film di una banalità sconcertante, con una trama ridotta all’osso e fin troppo scontata.
Ma facciamo ordine. Siamo in Nord America, in epoca pre-medievale: dopo una feroce battaglia, un giovanissimo vichingo di nome Ghost (interpretato da Karl Urban), unico sopravvissuto degli scontri tra i suoi connazionali e le tribù limitrofe, viene adottato dalle comunità indiane e cresciuto come uno di loro. Quando la belligeranza vichinga tornerà alla carica facendo strage della sua nuova famiglia, l’uomo metterà in atto la sua vendetta.
Come dicevamo all’inizio Pathfinder – La leggenda del guerriero vichingo vorrebbe essere un film epico, ma finisce per essere solo un piatto revenge-movie.
Il mancato coinvolgimento da parte dello spettatore è senza dubbio causa in primis degli attori, oltre che dello script, poco interessante già sulla carta. Attori che sembrano fuori contesto, fuori parte e fin troppo mediocri per rendere credibile un film del genere. La sceneggiatura senz’altro non aiuta, i dialoghi sono ai limiti della presentabilità senza dimenticare che ci sono incongruenze storiche importanti.
Un film che ricrea solo le ambientazioni dei tempi che furono (l’unica nota lieta è la fotografia che sfocia sui toni del blu e del grigio) trascurando, di fatto, il profilo antropologico dei soggetti storici e ignorando, senza troppi complimenti, gli schemi cognitivi e le rappresentazioni di riferimento dei popoli di allora (non si richiede un realismo esasperato, ma una messinscena quanto meno CREDIBILE degli eventi).
Ma poi chi sarà questo Pathfinder? Non è altro che un personaggio secondario – più che defilato rispetto allo storytelling principale – uno sciamano in grado di prevedere il futuro (e quindi spoiler reincarnato) del giovane eroe. Una figura intermediara, messianica ma, manco a dirlo, inadatta al ruolo prepostogli. Interpetato da Russell Means, che ricorderete sicuramente nel film cult L’ultimo dei mohicani, anche se siamo lontani, lontanissimi, dagli standard attoriali di quella pellicola.
Si parla poco, alcuni personaggi non hanno nemmeno un nome, si tenta di far parlare la violenza ma anche qui le scene d’azione sono frenetiche, montate male e poco convincenti (dove sono quelle di Apocalypto del buon Mel Gibson, crudo e spietato nella sua verosomiglianza?).
Insomma, Pathfinder – La leggenda del guerriero vichingo non sa bene cosa vuole essere, ha un’identità indefinita e ciò forse è alla base del suo naufragio.
Il regista, Marcus Nispel, già autore di discreti film horror, si è limitato a trapiantare – in maniera nefasta – i personaggi dell’oggi in un contesto (fatto di scenografie e costumi) remoto e arcaico. Il risultato non può che essere una riproposizione patetica e altamente dimenticabile dei tempi che furono, una rappresentazione degna dei peggiori b-movie.