Paul e Paulette Take a Bath: recensione del film da Venezia 81

Diretto dal regista anglofrancese Jethro Massey (1978), il film è in concorso alla Settimana Internazionale della critica.

Paul e Paulette Take a Bath è un viaggio poetico e audace nei luoghi della ville lumière insanguinata, spazi urbani ed extraurbani in cui si è consumata una piccola o grande carneficina. Un modo, più che rituale o esorcistico, definitivamente terapeutico per mettere in scena i fantasmi interni, dar loro consistenza e storicità e, così facendo, lasciarli cadere, abbandonarli, dir loro addio.

Paul e Paulette Take a Bath: due personaggi formidabili, interpretati da attori in perfetta comunione con loro, per un romanzo di ri-formazione dai toni poeticamente strampalati.

Boy meets girl a Parigi. Paul, giornalista americano con la passione per la fotografia, stile hipster e animo da gentiluomo d’altri tempi, genere di maschio un po’ ‘tappetino’ ma senza perdere l’orgoglio, trova sulla sua strada Paulette, francese inquieta che cerca di alleviare le sue pene d’amore assimilando corporeamente la dimensione macabra di certe morti violente avvenute nel passato della sua città. Quando, rapito dall’intensità di una donna che non ha paura di darglisi già rivelata, con le ferite esposte anche se taciute sono le loro cause, lui azzarda una spiegazione a quel morboso interesse per riattualizzare in senso performativo ammazzamenti vari in giro per la capitale francese (e anche fuori porta) – il primo atto, l’esecuzione di Maria Antonietta, riprodotta perfino nel dettaglio del leggero inciampo sui piedi del boia davanti al patibolo –, ipotizza si tratti della necessità di toccare. Toccare per conoscere qualcosa che, se resta lettera morta sulla pagina del libro, continua a non esistere poiché non si fa carne. Individua in Paulette la volontà di sperimentare coi sensi qualcosa di saputo, di trasferire il sapere sul piano del gusto, o del tatto, per sottrarlo alla gnosi, al misticismo di una conoscenza in cui spirito e materia restano separati e la teoria non si fa mai pratica, la conoscenza non diventa mai esperienza. Lei, però, lo corregge: non si tratta di bisogno di toccare, ma di sentire. Toccare non basta a sapere se la pelle dell’altro è calda o meno; occorre sentire. Volgere a sentimento il dato fisico, che da sé non basta, non esaurisce tutte le possibilità, non raggiunge nessuna profondità dell’essere, non infilza nessuna radice dell’esperire.

In Paul e Paulette Take a Bathil riferimento è alla vasca in cui Hitler fece il bagno con Eva Braun; i due protagonisti sono disinvoltamente coinvolti anche dalla vita intima dei più perversi dittatori del Novecento –, il viaggio nei luoghi di Parigi che sono stati teatro di massacri individuali o collettivi diventa un percorso di avvicinamento tra sconosciuti, una storia a suo modo d’amore, laddove per lui è amore prepotentemente erotico per l’alterità rappresentata da lei, dal suo eccesso, dalla suo scivolare femminilmente via e molto al di là rispetto al logos, mentre per lei è attraversamento di un ponte, elaborazione del lutto della perdita, non tanto la perdita dell’altro amato – in questo caso, Margerita, una donna russa – quanto di un altro sé, di un’identità abbarbicata a un trauma passato, a identificazioni mortifere. A un padre macho; a una madre “troppo intelligente“; a un’educazione cattolica che non rinuncia a credere al miracolo di poter mangiare Cristo ogni domenica. In fondo, per lasciarsela alle spalle, Paulette deve onorarla: dimostrare anche lei che il simbolo non basta, serve credere che un’ostia è un vero corpo e che, ingoiandolo, lo si possa integrare a sé, farlo proprio. Il suo comportamento, di cui Paul si fa complice, capovolge passività in attività; è sia un atto sublimatorio sia antisublimatorio: la rappresentazione non è solo simbolica, ma in qualche modo anche un acting out, un agìto ‘reale’. Questo bisogno di realtà, di realizzazione che scavalca la capacità immaginativa, finge non più solo nella mente, ma anche nel e con il corpo, è forse il suo estremo tentativo di riparare al danno. Se possiamo sentire qualcosa, lo confiniamo: la pelle è l’organo che copre tutti gli altri, ma non è sterminato, da qualche parte trova la sua fine.

Paul e Paulette take a bath: valutazione e conclusione

Il film, che sfila ammaliante, né lirico né realistico, ma in un punto mediano tra le due categorie estetiche, su un fondo enigmatico, chiede al suo pubblico di accompagnare anch’esso Paulette, insieme a Paul-traghettatore, nel suo processo di autoguarigione per mezzo di scenette dal più antico al più recente scempio. Il bisogno di attualizzare un delitto passato è una forma di storicizzazione – e di sterilizzazione – dello stesso: non insiste più qualcosa che è stato risospinto nel passato attraverso l’azione performativa che, attualizzandolo, gli dà forma, lo elabora e quindi lo oltrepassa. Il film, fatto anche di piccole drammatizzazioni interne, a incastro di scatole cinesi, suggerisce, in certa misura, una riflessione sul ruolo terapeutico delle arti drammatiche, sulla necessità di scrivere storie per poi rappresentarle, tradurle in azione scenica che permetta sia il drenaggio semantico, per mezzo della parola, sia l’accesso al sentire attraverso il corpo. I due attori protagonisti, entrambi straordinari, mettono a disposizione del progetto le loro vulnerabilità non interpretando i personaggi, ma sostituendosi a loro, diventando Paul e Paulette, prestando i propri corpi ai loro sentimenti, facendo diventare i sentimenti corpi: materia che occupa uno spazio, che si può guardare, fotografare, incidere, materia che permette a interiorità aliene di accorciare le distanze, di toccarsi, di sentirsi non più così estranee.

Regia - 4.5
Sceneggiatura - 4
Fotografia - 4
Recitazione - 5
Sonoro - 4
Emozione - 5

4.4