Perfect Days: recensione del film di Wim Wenders
Si esce dalla sala riabilitati alla vita, rieducati alla bellezza.
Ci si riempie gli occhi di piccole meraviglie, le orecchie di buona musica. Il cuore, esplode di una semplicità innocente e meditata, che non è quella innata dei bambini, non è caso, non è scontata sorpresa. Perfect Days, il film di Wim Wenders, è la cifra vulnerabile dell’essere presentata in un involucro di poeticità che tralascia l’artificiosità occidentalizzata dell’esistenza per tuffarsi nella meticolosità sfuggente della quotidianità orientale.
Il regista tedesco si cimenta in un’opera che vede la sua gestazione in un progetto pubblicitario inerente i bagni pubblici della città di Tokyo: un incipit bizzarro, che però si tramuta in una pellicola deliziosamente sottile, accogliente e appagante in cui i concetti di cura e realizzazione personale combaciano in una prospettiva semplice e inattesa, lontana dalla pretenziosità reboante dell’immaginario comune.
Hirayama, il protagonista di Perfect Days interpretato dal bravissimo Kōji Yakusho, è un addetto alla pulizia dei bagni pubblici di Tokyo; un lavoro che sembra renderlo felice e che esegue con meticolosità, armato di specchietto per controllare i punti nascosti dei servizi igienici e costruendo da sé gli attrezzi del mestiere.
I nonluoghi di Wim Wenders e la normalità del bene
La capitale nipponica di Wenders è una location a misura d’uomo, fatta di edifici minuti e ordinati, strade sinuose, negozi e ristoranti di fiducia; un reticolato di non-luoghi (per dirla con Marc Augé) che divengono santuari di condivisione, templi sacri di una routine placida e rassicurante, bilanciata da un senso comunitario ineccepibile e invidiabile, a tratti inconcepibile.
Come può Hirayama trovare appagante un lavoro del genere? Il senso trascende l’apparenza, va oltre ciò che la società vede per farsi verbo di accudimento verso un prossimo ignoto e sempre diverso.
In una cornice in cui i luoghi non hanno proprietà specifica, anche il buon senso diviene un patrimonio pubblico da coltivare e la bontà umana acquisisce i contorni di un atto scontato e dovuto, così profondamente avviluppato nella nostra natura da essere imprescindibile.
Con un’inquadratura rigidamente in 4:3, Wim Wenders ci regala uno spaccato normalissimo di vita, lo fa soffermandosi a distanza ravvicinata sulle espressioni del volto, in una palette fredda che assimila tepore man mano che il minutaggio scorre. Prende poi le distanze, quanto basta a regalarci una visione totale della realtà in cui ci troviamo – la luce che filtra dagli alberi, le vetrate colorate delle toitet, un tizio strambo che si aggira nel parco, un bambino che saluta con la manica in senso di gratitudine, il caos di un pub -; si perde nei chiaroscuri al neon atti a circoscrivere un dettaglio, un piacere intimo come la lettura, quella dei libri di autori come William Faulkner, Aya Kōda, Patricia Highsmith, rigorosamente di seconda mano.
Perfect Days ci immerge in un gioco silenzioso e terapeutico, fatto di poche parole e molti gesti, piccoli e preziosi come le piantine annaffiate quotidianamente dal protagonista.
Parole, dicevamo, poche ma essenziali: restano rinchiuse dentro al petto emergendo solo quando davvero servono, distillate con cura per lenire un dolore o regalare un’illusione che abbia un retrogusto di infinito. Hirayama usa la voce quanto basta a gettare ponti verso l’altro da sé, lasciando spazio alla musica, tantissima e densa, coagulata in supporti analogici d’altri tempi, rari quanto la capacità di godere dell’essenziale, di rallentare, di fare del bene senza attendere in cambio null’altro che la bellezza di un sorriso.
La colonna sonora di Perfect Days si intromette nei silenzi
A permeare l’aria rarefatta di mutismo provvede una colonna sonora gloriosamente azzeccata, che da Perfect Day di Lou Reed si dilata fino a Feeling Good di Nina Simone, infilandosi tra i nostri denti, il palato e il cuore, nel non-luogo che ognuno di noi sa creare tra i milioni di nonluoghi metropolitani della civiltà contemporanea. C’è House of the Rising Sun degli Animals, Sittin’ On The Dock of the Bay di Otis Redding, Sunny Afternoon dei Kinks, Brown Eyed Girl di Van Morrison, Pale Blue Eyes dei Velvet Underground, c’è anche Redondo Beach di Patti Smith… c’è musica da ascoltare rigorosamente in auto, la mattina, mentre ci si reca a lavoro. E guai a parlare se canta la radio!
La soundtrack è il nervo scoperto di una narrazione fatta di un tempo distillato, che si incunea nei meandri della vita con la felicità semplice di andare incontro al noto e di lasciarsi stravolgere dalle piccole sorprese: l’arrivo inatteso della nipotina, uno sguardo d’intesa con una sconosciuta, un bigliettino nascosto, un gioco da bambini fatto con un adulto sconosciuto affetto da un male incurabile.
“La prossima volta è la prossima volta. Adesso è adesso“: un’esternazione a tratti ingenua che però si fa chiave di lettura dell’essenza di quei “giorni perfetti” vissuti sull’orlo di un sospiro perenne quanto impercettibile. In Perfect Days c’è un soffio assiduo, impercettibile e persistente, c’è la ricerca pura e minimale della bellezza, che non è grande, non è sfarzosa, ma piccola e preziosa, visibile solo a chi vuole, come un’abituale magia.
Perfect Days: valutazione e conclusione
Wim Wenders ci regala quindi un film intimo, con la cinepresa ad altezza d’uomo, gli occhi che si alzano all’insù solo per guardare un soffitto di foglie amiche. Personaggi discreti, che non si fa fatica a capire, a cui gli interpreti (Tonio Emoto, Arisa Nakano, Sayuri Ishikawa, Min Tanaka, Tomokazu Miura, oltre al già citato Kôji Yakusho) regalano un guizzo di sconfinata personalità.
Un film da godere lentamente, sintonizzando i battiti sul tempo unico e incommensurabile di una vita fatta di attimi unici e irripetibili.
Si esce dalla sala riabilitati alla vita, rieducati alla bellezza.
Vincitore della Palma d’oro per il migliore attore (Kôji Yakusho) all’ultimo Festival di Cannes, Perfect Days è nelle sale italiane dal 4 gennaio 2023, distribuito da Lucky Red.