Peripheral: recensione del film
Un film vivo, viscerale, pieno di passione e soprattutto visivamente molto accattivante.
Oggi come oggi basta poco – una frase, una foto, un video su YouTube – per far esplodere una polveriera, per portare la violenza per le strade, tra le persone, esasperate da una mondo sempre più complicato e meno libero.
Bobbi Johnson (Hannah Arterton) fino a poco tempo fa era una giovane scrittrice sconosciuta che con il suo primo libro Bite the Hand ha quasi portato la guerra civile nella Gran Bretagna. A dispetto del successo e della fama, Bobbi però non si sente realizzata e soprattutto ora che è chiamata a completare la sua seconda opera, il sequel, intitolato Peripheral, non sa se, come e perché portare avanti il tutto.
Sa solo che il gigantesco computer che la sua sua manager Jordan (Belinda Stewart Wilson) le ha fatto avere per facilitarle il compito, sembra essere più uno strumento di controllo che un aiuto. E che Shelly (Rosie Day), la misteriosa stalker che le fa trovare VHS nella casella della posta, la spaventa sempre di più; tanto che accetta persino le visite a sorpresa dell’ex Dylan (Elliot James Langridge).
La doppia identità di Peripheral, presentato al Trieste Science+Fiction Festival 2018
Diretto con mano ferma e ispirata da Paul Hyett (già regista di The Seasoning House), Peripheral è un film dalla doppia faccia, dalla doppia identità, che si dibatte tra l’essere originale, innovativo e l’abbracciare in toto il già visto, il già sentito o già capito.
Attraversato da un humor nero particolarmente gradevole (ma mai eccessivo), deve sicuramente molto a una sceneggiatura di Dan Schaffer che, se da un lato non riesce ad andare oltre il classico complottismo orwelliano che da più di trent’anni abbiamo sperimentato in ogni modo, dall’altro mostra diversi lati di grande interesse.
Primo tra tutti porta una capacità di far evolvere e di approfondire la psicologia dei personaggi di grande livello, secondo ha al suo interno diverse trovate e spunti narrativi comunque di grande impatto e tutt’altro che banali.
Peccato che in Peripheral spesso si perda un pò il bandolo della matassa, che si annacqui tutto con una ricerca dello psichedelico, dell’assurdo, rinunci completamente a seguire quell’iter lineare o comunque comprensibile costruito fino a quel momento.
Peripheral: un film di fantascienza che ci sbatte in faccia ciò che siamo o stiamo diventando
Vi è quindi un grosso problema di coerenza ed intensità, ma allo stesso tempo la volontà di fornire una metafora a metà tra horror e sci-fi, che descrive in modo oggettivamente fantasioso ma incisivo la moderna schiavitù delle masse verso una tecnologia che altro non è che uno specchio per allodole che devono essere tenute lì, ferme, inerti, schiavizzate, senza possibilità di scelta.
Nel rendere tale concetto, Peripheral risulta molto incisivo grazie ad una buona performance attoriale, che vede la Arterton alternare il sotto le righe e sopra le righe in modo perfetto, oscillando tra l’immagine di un’annoiata, asociale e boriosa artista grunge da una parte e quella di una disperata e folle prigioniera dall’altra.
Pieno di riferimenti a Philip K. Dick, ad Asimov, ad Alan Moore e Clarke, Peripheral (per quanto in modo diseguale), riesce a donarci in modo metaforico una visione del futuro nella quale la filosofia politica e il comportamentismo si fondono in modo molto interessante.
La dipendenza dai social, il porno, il marketing virale, l’ansia sociale, l’apatia culturale e di conseguenza politica… tutto questo ci viene sbattuto in faccia.
Peripheral non porta forse nulla di nuovo, ma lo fa con energia
Per quanto alcune soluzioni narrative (specie nel finale) siano abbastanza sconclusionate e un po’ retoriche, il film di Hyett è però vivo, viscerale, pieno di passione e soprattutto visivamente molto accattivante.
Non porta nulla di nuovo o quasi, ma lo porta con grande energia.